Non trattatelo |
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di
Fernando Marchiori Come tutti i classici, è
facilmente imitabile - e ha prodotto epigoni in mezzo mondo quanto nessun
altro protagonista delle scene del Novecento - ma anche sempre
reinterpretabile. Se dunque «ricorrere a Brecht senza criticarlo è un
tradimento», come ha scritto Heiner Müller, l’operazione tentata con Le
storie del signor Keuner è un atto di fedeltà allo scrittore proprio perché
usa Brecht contro Brecht e spiazza sia lo spettatore che si aspetti conferme
di dogmatismo e pedagogismo, sia quello fedele alla “linea di condotta”.
L’opera infatti corre, brechtianamente, sul filo della contraddizione tra
effetto e successo, cercando il primo a rischio del secondo. Non si tratta di
discutere se lo spettacolo di Ovadia e Andò sia un capolavoro - non lo è. Ma
vi si intravede finalmente la possibilità di scongelare uno dei padri del
teatro contemporaneo dal mausoleo della rimozione e di verificarne la tenuta
come dispositivo critico e non come breviario di un’arte da archiviare nei sotterranei
del secolo breve. Già la rinuncia alla
messinscena di un testo di Brecht e la scelta di proporsi come
un’installazione toglie di mezzo equivoci interpretativi e pericoli di
transfert emotivi, perché passa di fatto dalla rappresentazione alla “esposizione”,
saltando a piè pari nella contemporaneità di un procedere che si misura con
internet, blog e ipertesti sul loro stesso terreno, ma muovendo dalla
prospettiva dell’archeologia del presente delineata da Walter Benjamin. Lo
spettacolo è dunque un percorso, o meglio una rete di percorsi possibili che
lo spettatore è invitato a intraprendere anche per conto proprio
nell’universo brechtiano e nelle teorie del teatro, nella Storia e nei nodi
politici del presente. E’ una fuga (in senso musicale) sul caos del
Novecento, con immagini di violenza e di vita quotidiana, schegge di
pubblicità e cartoons, volti di personaggi noti e masse di sconosciuti, con
frequenti ridondanze ed effetti blob, anche nel sottotesto di riflessione sul
teatro e sulla sua funzione oggi, sui suoi linguaggi e la sua marginalità. Ne
risulta tuttavia un’immagine di Brecht sorprendente ai molti che lo hanno
liquidato come simbolo scomodo di un’ideologia, ma in fondo familiare ai
lettori del Brecht più raccolto e autocritico, combattuto quanto combattivo,
che si rivela anche nelle poesie e nei diari di lavoro, quello che cerca e
non trova, che “sta faticando non poco a preparare il suo prossimo errore”.
Un Brecht esiliato anche dalle proprie certezze, come spiega Ovadia, ma
caparbiamente deciso a esercitare dubbio e interrogazione in un’epoca in cui
avanza la perdita di senso. Il signor Keuner infatti
è una sorta di alter ego dell’autore. Un personaggio apparentemente minore,
che Brecht si è portato dietro per tutta la vita e con il quale dialogava
ogni volta che doveva mettersi in discussione. Le sue storie tornano oggi in
libreria in una nuova edizione (Einaudi) con alcuni testi inediti per la
traduzione di Roberto Menin. Quanto ai diari, è un autore tagliente e
razionale come sempre, quello che emerge, ma anche umorale e autoironico. Sia
in quelli giovanili (1920-22) pubblicati in Italia da Einaudi nel 1983
insieme ad alcuni appunti autobiografici, sia in quelli “di lavoro” curati da
Werner Hecht e usciti da noi giusto trent’anni fa, sempre per Einaudi nella
traduzione di Bianca Zagari. Qui si spalanca al lettore il laboratorio
brechtiano, il suo procedere artigianale e asistematico. Brecht comincia a
scrivere queste pagine nel luglio 1938, quando è costretto a lasciare la
Germania per la Danimarca, prima meta di un lungo esilio che negli anni
seguenti lo porterà in Svezia, Finlandia, poi negli Stati Uniti, fino
all’inquisizione davanti alla commissione Mc Carthy, al ritorno in Europa,
prima a Zurigo e infine a Berlino est. E’ un ricco giacimento di riflessioni,
osservazioni, esercizi dialettici, notizie sui suoi lavori, resoconti di
conversazioni con amici e nemici illustri, sguardi sugli avvenimenti che
stanno sconvolgendo il mondo. Con apparente casualità, ma forse con intenti
iconologici ancora da indagare, ritaglia fotografie, caricature, articoli di
giornale, li ricompone con commenti mai semplicemente didascalici, spesso con
testi lontani, in un collage che opera per contrasti e ci riporta, più ancora
che al suo teatro, alla lettura del suo teatro proposta da Ovadia/Andò. Qui
si affina lo sguardo che sarà capace di fissare l’Abicì della guerra, di
ricominciare a discernere logiche e meccanismi di fronte al «disordine della
storia, del quale la guerra è la massima espressione». Qui si agitano ancora
pensieri che precipiteranno in forma compiuta nelle poesie. Qui si sviluppa
quell’interesse verso le occasioni in cui la vita quotidiana si fa teatro che
lo aveva già portato ad occuparsi del carattere teatrale conferito dal
fascismo alla politica, ma che ora si indirizza allo studio del «teatro nella
vita di ogni giorno, quello che gli individui fanno senza pubblico, quando
“recitano una parte” in segreto». Così allinea la sequenza fotografica della
“danza di Hitler” raggiante per la caduta di Parigi. Mostra Mussolini come un
commediante che conosce l’arte del teatro epico perché sa «dare a eventi di
tipo banale un’inverniciatura storica». Ma scruta anche la folla, le
reazioni, i “gesti” sociali, gli atteggiamenti, le scelte che si leggono in un
volto, in una postura quanto su un titolo di giornale. Non a caso lo stesso
Brecht definirà le Storie del signor Keuner come «il tentativo di rendere
citabili i gesti». E sotto questa luce tutta la sua opera - lo scriveva
Roland Barthes - sembra così niente affatto “politica” ma essenzialmente di
riflessione, perché «mette gli uomini di fronte alla propria storia, ovvero
di fronte alla propria responsabilità». |
di Claudio Meldolesi |
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di
Claudio Meldolesi […] Con Il cerchio di
gesso messo in prova dall’estate ’53 all’ottobre ’54, Brecht prese ad agire
decisamente come poeta regista, senza fare più distinzioni fra il suo ruolo
di regista “capo” e il suo soggettivismo da artista imprevedibile. Il suo
rapporto con gli attori si fece più complesso e approfondito. Le offerte
attoriche divennero valori di sfondo. I dettagli, in quanto “germi
associativi” della rappresentazione, assorbirono quasi tutta l’attenzione del
lavoro quotidiano; ma a ben vedere, il poeta regista non era tanto
interessato ai dettagli e agli altri segni base del linguaggio scenico: essi
gli erano indispensabili per poter curare ciò che più gli premeva, ossia le
dinamiche di collegamento fra attore e attore, fra attore e Gestus, , fra
Gestus e Gestus. L’insieme ingenuo delle reciprocità degli
attori-non-ancora-personaggi: era questo che attraeva il poeta regista. La regia che Brecht
perseguiva non si proponeva di connotare metricamente questa o quella azione.
La sua idea era un’altra: che lo spettacolo si potesse modellare dal suo
interno come un organismo poetico, nel corso delle prove, grazie ad un
susseguirsi di sollecitazioni. Sperimentalmente il teatro avrebbe dovuto
“imitare” il processo attraverso cui il poeta (Brecht stesso) arrivava a
decantare la sua lingua, i suoi versi. La difficoltà consisteva nel creare le
condizioni adatte: erano appunto queste condizioni che il poeta regista
cercava incalzando gli attori. Quanto alla forma, Brecht era portato a
credere che essa fosse una risultante, alla maniera del “campo fisico”
teorizzato da Schönberg come «situazione di riposo fra due forze
contrastanti». Varie sue sperimentazioni - fatte da regista, poeta e
orientalista dilettante - lo inducevano a pensare alla forma come a qualcosa
che si determina: attraverso tracce fisiche prodotte da gesti ingenui, da
cancellature e persistenze. Il gruppo degli attori, l’Ensemble, doveva
costituire l’ordine diverso, in senso teatrale, che permettesse
l’individuazione e la definizione di tali tracce fisiche. E il regista doveva
essere colui che presiedeva al processo poetico, senza esserne l’“io”.
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di Pippo Delbono Frasi sparse che mi ritornano a galla vive, pulsanti, di
oggi, di sempre. P |
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di Pippo
Delbono Frasi sparse che mi
ritornano a galla vive, pulsanti, di oggi, di sempre. Parole del linguaggio
del teatro, parole di rivolta, di saggezza Lo sguardo dell’attore
che si osserva, per non perdere la coscienza, Ricordo di uno
spettacolo di Brecht visto molti anni fa: la voce Ci sono molti modi di
uccidere. Si può infilare a qualcuno il Sono parole che vivono
oggi come allora. Il poeta, che ballava,
come Pasolini, come Artaud, tra il costante volo Quali tempi bui sono
questi quando discorrere di un albero è Quando nella guerra che
verrà ci saranno vincitori e vinti, Abbiamo troppo
dimenticato il tempo che i poeti ci insegnavano a vivere. Abbiamo dimenticato quel
susino nel cortile, circondato da una grata Se potesse crescerebbe. Diventare grande gli
piacerebbe. Ma non servono parole. Quello che il manca è |
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Gli esordi, la vita, la
drammaturgia innovativa, la repubblica di Weimar, l’esilio durante il nazismo,
il ritorno nella Ddr |
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Un antiaristotelico che scelse
la Germania dell’est |
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di
Tonino Bucci I testi affrontano temi
scottanti nell’attualità tedesca del tempo, temi sociali, politici,
ideologici. Vita di Galileo (1938), Madre Coraggio e i suoi figli (1939),
L’anima buona del Sezuan (1940) entreranno tra i capolavori teatrali del
’900. Nel ’33, anno della
conquista del potere da parte dei nazisti, lascia la Germania. Si rifugiò
prima in Svezia, quindi in Finlandia, in Unione Sovietica e infine nel 1941
in California. Torna in Germania solo nel 1948, ma sceglie la Ddr. Si
stabilisce a Berlino est insieme alla moglie Helene Weigel. Al Theater am
Schiffbauer fonda una propria compagnia teatrale, il Berliner Ensemble,
destinato a diventare una delle più prestigiose istituzioni culturali
tedesche. E’ di questo periodo la pubblicazione de I giorni della Comune.
Rilancia il manifesto teorico Piccolo organon per il teatro e nel ’50
ripubblica il dramma scritto in Finlandia nel ’40, Il signor Puntila e il suo
servo Matti, una parabola sul rapporto tra borghesi e proletari. Sul rapporto
con lo stato della Ddr si è scritto molto. Brecht non si iscrisse mai al
partito comunista. Negli anni del suo soggiorno a Berlino est non scrisse
opere nuove, ma si limitò a ripubblicare vecchi lavori e a dirigere il
Berliner Ensemble. Molti hanno visto in questo un segno di ritiro dalla
politica e di rapporti difficili con il socialismo reale. Altri, invece, come
il filosofo Slavoj Zizek, parlano di Brecht come dell’«ultimo artista
stalinista. E la sua grandezza è tale non malgrado il suo stalinismo, ma a
causa di ciò». Nel ’53, quando ci fu un’insurrezione per le strade di Berlino
est, Brecht approva l’intervento dell’esercito e la scelta del partito
comunista. E’ convinto che la repressione militare non abbia come bersaglio
ultimo gli operai berlinesi ma «alcune frangie fasciste organizzate» che
sfruttano la disillusione operaia, e che abbia perciò evitato un nuovo
conflitto mondiale. Farà ancora in tempo a criticare la destalinizzazione, ai
suoi occhi troppo meccanica e poco dialettica. Muore nel ’56, il 14 agosto
per un infarto cardiaco. Viene seppellito, secondo la sua volontà, nel
cimitero di Dorothenfriedhof, di fronte alle tombe di Hegel e di
Fichte. |
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L’altro Brecht , poeta
dimenticato |
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di Aldo
Nove Quello di Beckett è in atto, quello di Brecht è raccontato, ma
l’occhio vede le stesse cose, prova gli stessi spaventi, lo spettacolo che
“l’imbianchino” prepara per il popolo tedesco è la riduzione dell’individuo
(in Brecht, sempre “collettivo”) a quel vuoto interiore che in Beckett è già
ridotto ai minimi termini. Diciamo che Brecht crede ancora nella realtà che
sotto i piedi gli si sfalda. La peste non cancella la memoria della natura.
Sono i “resti di tempi passati” dove emerge la dimensione anche classicista
di Brecht poeta: “Molo tempo prima / che ci gettassimo su petrolio, ferro e
ammoniaca / c’era ogni anno / il tempo degli alberi che verdeggiano
irresistibili e violenti” (da Sulla Primavera). Brecht con Pasolini? E’
questo uno degli interrogativi, e degli stimoli, che la poesia di Brecht può
ancora rivolgerci. |
Scritti di Brecht: |
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Scritti
di Brecht:
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Il teatro civile |
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di
Gerardo Guccini La fortuna di Brecht si
intreccia, insomma, a reti di rispondenze involontarie fra i modelli
d’intervento previsti o incarnati dall’opera brechtiana e gli autonomi
sviluppi del teatro civile. Per poter riconoscere l’originalità e la portata
di tali incontri imprevisti, occorre dunque partire dalle fasi storiche del
brechtismo, che ne sono state rianimate e pervase a partire dall’ultimo
decennio del Novecento. Negli anni Sessanta,
l’opera di Brecht unifica le istanze dell’innovazione e quelle della
tradizione drammatica, ricomponendole in una sorte di “pax brechtiana”. Il
Berliner Ensemble diventa un modello europeo, al quale si ispira, fra
l’altro, la fondamentale esperienza del Piccolo Teatro di Milano. Registi
come Vitez, Planchon, Strelher e Squarzina, trovano nella poetica dello
“straniamento” un criterio cui riferire l’azione sugli attori. In Francia,
gli spettacoli del Berliner influenzano la teoria dei segni di Barthes,
mentre, in tutt’altro campo, Godard trasferisce al linguaggio cinematografico
la strategia comunicativa di Brecht. Negli anni Settanta,
Brecht sembra essere diventato, in quanto avanguardia perennemente
reinterpretabile, una “moda senza tempo” (così Cesare Cases). Da un lato, il
teatro istituzionale non si stanca di celebrarlo (nel 1970 ben undici teatri
italiani hanno in cartellone qualcosa di suo), dall’altro, gli ambiti
dell’innovazione contribuiscono al mito, riscoprendo i “drammi didattici”.
Testi che s’inquadrano perfettamente nel clima di accesa contrapposizione
ideologica di quel periodo, sviluppando temi come l’auto/negazione
dell’individuo a fronte degli interessi della collettività, l’essenza inumana
del capitalismo, la negazione dei “classici” e, quindi, della tradizione.
Tuttavia, questa stessa ondata innovativa, che riporta alla luce aspetti
generalmente trascurati dell’opera di Brecht, implica l’eclissi della sua
posizione egemone, in quanto che nega risolutamente al testo drammatico - e
ciò tanto nei fatti che in linea di principio - il diritto di dettare il
senso dello spettacolo e d’imbrigliare l’azione dell’attore. Nel 1977, Adelio
Ferrero, riconoscendo la crisi, ne coglie lucidamente le cause, attribuite
alla refrattarietà della cultura di sinistra ad accettare modelli estetici e
formali (specie se testuali) e ai nuovi impulsi irrazionalisti: «Brecht da
parecchi anni, ormai, non è più nel vento. Se non sono riusciti i giovani del
’68, che pure avrebbero potuto trovarci tante cose che li riguardavano, a
vincere il fastidio e l’avversione per la sua autorità paterna, non saranno
certo i lacaniani delle varie scuole e confessioni a rimetterlo nel circolo
delle idee e delle discussioni prevalenti». (Introduzione, in Cases - Castri
- Manacorda - Chiarini - Ferrero - Buonaccorsi, Brecht oggi, Milano,
Longanesi & C., 1977). Gli anni Ottanta, con la
fine delle ideologie e la rovinosa crisi del mondo sovietico, inferiscono un
colpo durissimo all’esistenza postuma di Brecht. La sua memoria, non solo di
scrittore, ma anche di uomo, sembra cadere sotto il tiro incrociato della
critica strutturalista e dei contributi di contenuto scandalistico.
All’inizio degli anni Ottanta esce uno studio del francese Guy Scarpetta che
lo accusa di antisemitismo. Nel 1994, la ponderosa ricognizione
dell’americano John Fuegi rincara la dose, esplorando nel dettaglio i suoi
tradimenti coniugali, in un certo senso, doppiamente colpevoli, poiché
compiuti dal marito d’una moglie ebrea. Nello stesso periodo, però, si svolge
gradualmente e a macchia di leopardo anche una tendenza di segno contrario,
che scopre nel teatro brechtiano inedite articolazioni e capacità di
relazionarsi. In questa quarta fase,
il Brecht che resta dimostra una straordinaria solidità: come autore
drammatico, che offre a registi e attori partiture scenicamente efficaci,
come scrittore, le cui pagine resistono all’opera di frammentazione della
drammaturgia di gruppo, e come inventore di atmosfere e ambientazioni
teatrali, che si rigenerano al di là degli spettacoli e dei testi che li
avevano originariamente espressi. In particolare, lo straordinario connubio
di cabaret, espressionismo, opera, travestimento, cinismo critico e denuncia,
che connota l’Opera da tre soldi, tende a riprodursi anche laddove tale
dramma non è che una citazione, un ricordo, un orizzonte dell’immaginario o
un’ipotesi di lavoro. Si pensi alle originali varianti di Salvatore
Tramacere, di Armando Punzo e a quella recentissima di Moni Ovadia. Mentre la
storica versione di Giorgio Strelher era, piuttosto, un restauro criticamente
mediato degli assunti testuali. La recente fortuna di
Brecht sulle scene dell’innovazione teatrale è l’altra faccia del suo essere
diventato un “classico”, e cioè un autore che resiste nel tempo, non perché
permanentemente di “moda”, ma perché custodito dall’immaginario che la sua
opera genera al di là delle “mode”. Entrambe queste facce, quella rivolta
verso il metamorfico fluire delle esperienze artistiche e quella “classica”,
che contempla la rifrazione scenica delle forme drammatiche, presentano però,
se confrontate all’originaria ambizione brechtiana di rivolgersi al mondo per
trasformarlo, un carattere passatista, una specie d’aura melanconica dovuta
alla nostalgia per il passato potere. Gli allestimenti di questi ultimi anni
(e qui ricordiamo almeno il fantasioso Cerchio di gesso del Caucaso con la
regia di Benno Besson e le due Madre Courage di Mariangela Melato e Angela
Winkler) non possono infatti che confermare la tesi espressa, già durante il
glorioso periodo della “pax brechtiana”, da Max Frisch, il quale sosteneva
che, essendo Brecht divenuto un «classico», coi «classici» condivideva la
«totale mancanza di efficacia». Sia chiaro: qualsiasi prodotto dell’industria
teatrale, anche se criticamente acuto o genialmente interpretato, è già di
per sé, per il solo fatto d’esistere, una prova a favore di questa tesi
insidiosa, che, da un lato, omette di considerare quelle impressioni
strettamente individuali che veicolano attraverso infiniti rivoli l’azione
dei “classici” sul presente, mentre, dall’altro, misura l’efficacia d’un
fatto d’arte esclusivamente in base alla sua capacità di incidere, da potenza
a potenza, sui rapporti e le strutture della vita sociale. Brecht stesso,
però, aveva teorizzato la ricerca d’una simile efficacia, insegnando a
reagire con irritazione e ironia alla celibe bellezza delle espressioni
estetiche. Parlando dello scrittore di Augusta, sembra dunque logico trattare
alla stregua d’un fallimento l’essere restato, in quanto “classico”, al di là
delle “mode” e della damnatio memoriae degli anni Ottanta. «Ormai la tigre
Brecht - scrive Michael Merschmeier, recensendo la Madre Coraggio di Zadek -
è diventata una belva di pezza». (“Theater Heute”, luglio 2003) Più di vent’anni dopo,
l’assenza di Brecht e l’impossibilità di rappresentarlo dicendone fedelmente
le parole scritte, innervano un altro importante spettacolo brechtiano,
realizzato, questa volta, da Armando Punzo con gli attori reclusi della
Compagnia della Fortezza: I Pescecani, ovvero quel che resta di Bertolt
Brecht (2003). Oltre a ciò, a partire
dagli anni Novanta, i teatranti italiani agiscono in un ambiente culturale
pervaso di brechtismo, spesso, inconsapevole. Il che rende possibile
approssimarsi a Brecht con un atteggiamento che assomma scoperta e
riconoscimento. Chiariamo ora alcune di queste rispondenze diffuse. Brecht mirava
a risarcire la separazione fra scena e platea, facendo dello spettacolo un
atto pedagogico e dell’attore un interlocutore consapevole e diretto,
“straniato”, quindi, nella misura in cui per relazionare sé stesso al
pubblico non poteva presentarsi esclusivamente come personaggio. Questo suo
programma ha trovato un compimento in certe drammaturgie individualizzate del
“dopo dramma”, dove l’attore, non essendo più interno alla dinamica
rappresentativa del testo, tende a ricreare l’organismo diegetico al di fuori
della storia, mostrandosi, cioè, nell’atto di ricomporne a vista la forma
franta: entra ed esce dal personaggio, mostra la propria identità non
sostituita, utilizza la parola in quanto medium del pensiero, e, dicendo
pensieri, oggettiva la logica del suo comunicare. Fra l’attore epico
brechtiano, il “giullare del popolo” di Dario Fo e i narratori degli anni
Novanta, si snoda così, non già una tradizione fatta di memorie conservate e
adattamenti pragmatici, ma un seguito di espressioni distanziate e fra loro
organiche, che testimoniano la tenace vocazione civile degli artisti di
teatro. Brecht, indagandola in sé come negli attori del Berliner Ensemble, ne
aveva compreso, in netto anticipo sui tempi, alcune fondanti dinamiche, che
si sarebbero poi riaffermate con forza nell’ultimo scorcio del Novecento,
passando dalle esperienze dei gruppi a quelle, tuttora in corso, del teatro
civile. Possiamo così riassumerle: senza sperimentazioni di gruppo, la vita
del teatro tende a esaurirsi nella produzione di espressioni estetizzanti;
senza un oggetto di comunicazione e una forma del comunicare, che sia
semanticamente chiara e comprensibile, tale sperimentalismo collettivo corre
il rischio di allentare il rapporto scena/platea, teatro/società; infine,
l’oggetto della comunicazione non può venire formalizzato dal solo testo
drammatico né essere dato esclusivamente dall’autore, che chiama perciò
l’attore a collaborare alla composizione dei segni scenici. Semanticamente,
la nozione di “straniamento” indica, infatti, che il performer non agisce
soltanto al livello del significante - com’è proprio dell’interprete
drammatico -, ma è presente in scena anche in quanto coautore del “senso”
comunicato. La piena autoralità teatrale che l’autore si nega, in quanto
artefice esterno allo spazio vissuto del dramma, viene invece riservata
all’attore. Evocando - pur senza nominarla - la prospettiva del “dopo
dramma”, Brecht individua, infatti, come l’ensemble teatrale possa facilmente
evolversi in un “collettivo di narratori”, che revoca la necessità di
collocare un “autore drammatico”, nel senso tradizionale dell’espressione,
alla base del processo allestitivo. Scrive in un frammento edito postumo, «se
l’elemento narrativo implicito in ogni tipo di teatro risulta rafforzato e
arricchito, [il teatro epico] ha assolto il suo proprio compito». Il che,
precisa, «non significa affatto tornare indietro. Anzi, rafforzando
l’elemento narrativo, si sarà d’ora innanzi creata […] una base per le
peculiarità del teatro nuovo». (Teatro epico e teatro dialettico in Scritti
teatrali, II, Torino, Einaudi, 1975) |