Non trattatelo
come un classico

 

 

di Fernando Marchiori
Lo ha dimostrato il nuovo spettacolo di Moni Ovadia e Roberto Andò, Le storie del signor Keuner, recentemente presentato al Mittelfest di Cividale del Friuli: si può tornare a Brecht, dopo decenni di oblio, a patto di operare nei confronti dell’autore dell’Opera da tre soldi quel distacco critico e quella libertà interpretativa che ideologie e mode d’un tempo non consentivano. A patto cioè di rivoltare contro il drammaturgo tedesco le sue stesse armi, straniamento in testa. Parafrasando una sua celebre sentenza, potremmo dire che Brecht può essere attuale purché lo si legga come un autore il cui cliché sia “trasformabile” attraverso una lettura non schematica e perciò ancora in grado, a sua volta, di mutare il nostro punto di vista.

Come tutti i classici, è facilmente imitabile - e ha prodotto epigoni in mezzo mondo quanto nessun altro protagonista delle scene del Novecento - ma anche sempre reinterpretabile. Se dunque «ricorrere a Brecht senza criticarlo è un tradimento», come ha scritto Heiner Müller, l’operazione tentata con Le storie del signor Keuner è un atto di fedeltà allo scrittore proprio perché usa Brecht contro Brecht e spiazza sia lo spettatore che si aspetti conferme di dogmatismo e pedagogismo, sia quello fedele alla “linea di condotta”. L’opera infatti corre, brechtianamente, sul filo della contraddizione tra effetto e successo, cercando il primo a rischio del secondo. Non si tratta di discutere se lo spettacolo di Ovadia e Andò sia un capolavoro - non lo è. Ma vi si intravede finalmente la possibilità di scongelare uno dei padri del teatro contemporaneo dal mausoleo della rimozione e di verificarne la tenuta come dispositivo critico e non come breviario di un’arte da archiviare nei sotterranei del secolo breve.

Già la rinuncia alla messinscena di un testo di Brecht e la scelta di proporsi come un’installazione toglie di mezzo equivoci interpretativi e pericoli di transfert emotivi, perché passa di fatto dalla rappresentazione alla “esposizione”, saltando a piè pari nella contemporaneità di un procedere che si misura con internet, blog e ipertesti sul loro stesso terreno, ma muovendo dalla prospettiva dell’archeologia del presente delineata da Walter Benjamin. Lo spettacolo è dunque un percorso, o meglio una rete di percorsi possibili che lo spettatore è invitato a intraprendere anche per conto proprio nell’universo brechtiano e nelle teorie del teatro, nella Storia e nei nodi politici del presente. E’ una fuga (in senso musicale) sul caos del Novecento, con immagini di violenza e di vita quotidiana, schegge di pubblicità e cartoons, volti di personaggi noti e masse di sconosciuti, con frequenti ridondanze ed effetti blob, anche nel sottotesto di riflessione sul teatro e sulla sua funzione oggi, sui suoi linguaggi e la sua marginalità. Ne risulta tuttavia un’immagine di Brecht sorprendente ai molti che lo hanno liquidato come simbolo scomodo di un’ideologia, ma in fondo familiare ai lettori del Brecht più raccolto e autocritico, combattuto quanto combattivo, che si rivela anche nelle poesie e nei diari di lavoro, quello che cerca e non trova, che “sta faticando non poco a preparare il suo prossimo errore”. Un Brecht esiliato anche dalle proprie certezze, come spiega Ovadia, ma caparbiamente deciso a esercitare dubbio e interrogazione in un’epoca in cui avanza la perdita di senso.

Il signor Keuner infatti è una sorta di alter ego dell’autore. Un personaggio apparentemente minore, che Brecht si è portato dietro per tutta la vita e con il quale dialogava ogni volta che doveva mettersi in discussione. Le sue storie tornano oggi in libreria in una nuova edizione (Einaudi) con alcuni testi inediti per la traduzione di Roberto Menin. Quanto ai diari, è un autore tagliente e razionale come sempre, quello che emerge, ma anche umorale e autoironico. Sia in quelli giovanili (1920-22) pubblicati in Italia da Einaudi nel 1983 insieme ad alcuni appunti autobiografici, sia in quelli “di lavoro” curati da Werner Hecht e usciti da noi giusto trent’anni fa, sempre per Einaudi nella traduzione di Bianca Zagari. Qui si spalanca al lettore il laboratorio brechtiano, il suo procedere artigianale e asistematico. Brecht comincia a scrivere queste pagine nel luglio 1938, quando è costretto a lasciare la Germania per la Danimarca, prima meta di un lungo esilio che negli anni seguenti lo porterà in Svezia, Finlandia, poi negli Stati Uniti, fino all’inquisizione davanti alla commissione Mc Carthy, al ritorno in Europa, prima a Zurigo e infine a Berlino est. E’ un ricco giacimento di riflessioni, osservazioni, esercizi dialettici, notizie sui suoi lavori, resoconti di conversazioni con amici e nemici illustri, sguardi sugli avvenimenti che stanno sconvolgendo il mondo. Con apparente casualità, ma forse con intenti iconologici ancora da indagare, ritaglia fotografie, caricature, articoli di giornale, li ricompone con commenti mai semplicemente didascalici, spesso con testi lontani, in un collage che opera per contrasti e ci riporta, più ancora che al suo teatro, alla lettura del suo teatro proposta da Ovadia/Andò. Qui si affina lo sguardo che sarà capace di fissare l’Abicì della guerra, di ricominciare a discernere logiche e meccanismi di fronte al «disordine della storia, del quale la guerra è la massima espressione». Qui si agitano ancora pensieri che precipiteranno in forma compiuta nelle poesie. Qui si sviluppa quell’interesse verso le occasioni in cui la vita quotidiana si fa teatro che lo aveva già portato ad occuparsi del carattere teatrale conferito dal fascismo alla politica, ma che ora si indirizza allo studio del «teatro nella vita di ogni giorno, quello che gli individui fanno senza pubblico, quando “recitano una parte” in segreto». Così allinea la sequenza fotografica della “danza di Hitler” raggiante per la caduta di Parigi. Mostra Mussolini come un commediante che conosce l’arte del teatro epico perché sa «dare a eventi di tipo banale un’inverniciatura storica». Ma scruta anche la folla, le reazioni, i “gesti” sociali, gli atteggiamenti, le scelte che si leggono in un volto, in una postura quanto su un titolo di giornale. Non a caso lo stesso Brecht definirà le Storie del signor Keuner come «il tentativo di rendere citabili i gesti». E sotto questa luce tutta la sua opera - lo scriveva Roland Barthes - sembra così niente affatto “politica” ma essenzialmente di riflessione, perché «mette gli uomini di fronte alla propria storia, ovvero di fronte alla propria responsabilità».

 

 

 

 

 

di Claudio Meldolesi
Quando l’ultimo Brecht si metteva al lavoro come poeta o come regista, assumeva in fondo lo stesso atteggiamento verso la realtà

 

 

di Claudio Meldolesi
Quando l’ultimo Brecht si metteva al lavoro come poeta o come regista, assumeva in fondo lo stesso atteggiamento verso la realtà sociale. Pensava ai grandi problemi, di per sé indecifrabili, e si applicava alla comprensione dei dettagli e dei fatti di vita: situazioni elementari, interazioni e semplici gesti, la cui singolarità rimandava alla complicatezza dei rapporti fra gli uomini. Poesia e regia non ambivano a chiarire, ma a produrre forme chiare, comparabili con la realtà. Sappiamo che gli strumenti poetici e registici brechtiani avevano già incorporato questa somiglianza. Leggiamo in Benjamin che Brecht aveva elaborato il concetto di teatro epico “teorizzando la sua prassi poetica”.

[…] Con Il cerchio di gesso messo in prova dall’estate ’53 all’ottobre ’54, Brecht prese ad agire decisamente come poeta regista, senza fare più distinzioni fra il suo ruolo di regista “capo” e il suo soggettivismo da artista imprevedibile. Il suo rapporto con gli attori si fece più complesso e approfondito. Le offerte attoriche divennero valori di sfondo. I dettagli, in quanto “germi associativi” della rappresentazione, assorbirono quasi tutta l’attenzione del lavoro quotidiano; ma a ben vedere, il poeta regista non era tanto interessato ai dettagli e agli altri segni base del linguaggio scenico: essi gli erano indispensabili per poter curare ciò che più gli premeva, ossia le dinamiche di collegamento fra attore e attore, fra attore e Gestus, , fra Gestus e Gestus. L’insieme ingenuo delle reciprocità degli attori-non-ancora-personaggi: era questo che attraeva il poeta regista.

La regia che Brecht perseguiva non si proponeva di connotare metricamente questa o quella azione. La sua idea era un’altra: che lo spettacolo si potesse modellare dal suo interno come un organismo poetico, nel corso delle prove, grazie ad un susseguirsi di sollecitazioni. Sperimentalmente il teatro avrebbe dovuto “imitare” il processo attraverso cui il poeta (Brecht stesso) arrivava a decantare la sua lingua, i suoi versi. La difficoltà consisteva nel creare le condizioni adatte: erano appunto queste condizioni che il poeta regista cercava incalzando gli attori. Quanto alla forma, Brecht era portato a credere che essa fosse una risultante, alla maniera del “campo fisico” teorizzato da Schönberg come «situazione di riposo fra due forze contrastanti». Varie sue sperimentazioni - fatte da regista, poeta e orientalista dilettante - lo inducevano a pensare alla forma come a qualcosa che si determina: attraverso tracce fisiche prodotte da gesti ingenui, da cancellature e persistenze. Il gruppo degli attori, l’Ensemble, doveva costituire l’ordine diverso, in senso teatrale, che permettesse l’individuazione e la definizione di tali tracce fisiche. E il regista doveva essere colui che presiedeva al processo poetico, senza esserne l’“io”.


dal capitolo “Brecht alla prova” tratto dal volume di Claudio Meldolesi e Laura Olivi, “Brecht regista. Memorie del Berliner Ensemble”, Bologna, il Mulino, 1989. Il testo è stato tradotto in ungherese, la versione è attualmente in corso di stampa.     

 

di Pippo Delbono
C’è in me il ricordo vivo, presente, di Bertolt Brecht.

Frasi sparse che mi ritornano a galla vive, pulsanti, di oggi, di sempre.

P

 

 

di Pippo Delbono
C’è in me il ricordo vivo, presente, di Bertolt Brecht.

Frasi sparse che mi ritornano a galla vive, pulsanti, di oggi, di sempre.

Parole del linguaggio del teatro, parole di rivolta, di saggezza
antica, di bisogno di giustizia, di arte inscindibile dalla dimensione
necessaria artistica dell’agire umano.

Lo sguardo dell’attore che si osserva, per non perdere la coscienza,
per non smarrire nell’arte il senso del guerriero che pur cercando il
volo non perde la coscienza della terra.

Ricordo di uno spettacolo di Brecht visto molti anni fa: la voce
lacerante della sordomuta Katrin, figlia di Madre Coraggio, che proprio
nella sua condizione di diversa vedeva cose che altri non erano capaci
più di scorgere. Il suo ululare al cielo vedendo l’arrivo dei
soldati nemici, il suo ululare con un suono diverso, anormale, e per
questo non ascoltato.

Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno il
coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia,
ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al
suicidio, farlo andare in guerra… Solo pochi di questi modi sono
proibiti nel nostro stato scriveva l’esule Brecht negli anni bui
del terrore nazista.

Sono parole che vivono oggi come allora.

Il poeta, che ballava, come Pasolini, come Artaud, tra il costante volo
della poesia e l’occhio lucido sul mondo.

Quali tempi bui sono questi quando discorrere di un albero è
dimenticato.

Quando nella guerra che verrà ci saranno vincitori e vinti,
tra i vinti faranno la fame i poveri,
tra i vincitori faranno la fame ugualmente i poveri. Il coraggio delle
parole semplici.

Abbiamo troppo dimenticato il tempo che i poeti ci insegnavano a vivere.

Abbiamo dimenticato quel susino nel cortile, circondato da una grata
perché la gente non lo pesti.

Se potesse crescerebbe.

Diventare grande gli piacerebbe.

Ma non servono parole.

Quello che il manca è
il sole.  

Gli esordi, la vita, la drammaturgia innovativa, la repubblica di Weimar, l’esilio durante il nazismo, il ritorno nella Ddr

Un antiaristotelico che scelse la Germania dell’est

 

 

di Tonino Bucci
Bertolt Brecht nasce in Baviera, ad Augusta nel 1898. Diventerà uno degli autori più innovativi della drammaturgia eppure inizia la sua formazione all’università di Monaco studiando medicina nel 1917. La vocazione si manifesta quando, due anni più tardi, comincia a collaborare come critico drammatico con il giornale del partito socialdemocratico. In questo periodo scrive le sue prima opere, il dramma Baal e la commedia Tamburi nella notte. Nel 1924 entra come drammaturgo nel Deutsches Theater. Il successo arriva nel ’28 con L’opera da tre sold”, uno dei lavori più noti su musiche di Kurt Weill. Intanto elabora una drammaturgia originale che rovescia la forma del dramma borghese. Come spiegherà Benjamin, che al teatro epico brechtiano dedicherà vari saggi, in Brecht c’è una concezione platonica, antiaristotelica. Punta a un teatro che non cerca l’immedesimazione dello spettatore nei personaggi, quanto piuttosto l’estraneazione, la distanza, il distacco perché prevalga la critica nei confronti della società contemporanea. In un saggio sempre di Benjamin su un altro dramma di Brecht, Ascesa e rovina della città di Mahagonny del ’31, la differenza tra il dramma tradizionale e il teatro epico brechtiano è ancor più chiara. Il primo concepisce l’uomo come immutabile e sottomesso al destino, il secondo lo considera un oggetto d’indagine, modificabile dalla realtà sociale e punta alla narrazione dei fatti, all’osservazione, alla presa di coscienza delle ingiustizie e, quindi, alla critica.

I testi affrontano temi scottanti nell’attualità tedesca del tempo, temi sociali, politici, ideologici. Vita di Galileo (1938), Madre Coraggio e i suoi figli (1939), L’anima buona del Sezuan (1940) entreranno tra i capolavori teatrali del ’900.

Nel ’33, anno della conquista del potere da parte dei nazisti, lascia la Germania. Si rifugiò prima in Svezia, quindi in Finlandia, in Unione Sovietica e infine nel 1941 in California. Torna in Germania solo nel 1948, ma sceglie la Ddr. Si stabilisce a Berlino est insieme alla moglie Helene Weigel. Al Theater am Schiffbauer fonda una propria compagnia teatrale, il Berliner Ensemble, destinato a diventare una delle più prestigiose istituzioni culturali tedesche. E’ di questo periodo la pubblicazione de I giorni della Comune. Rilancia il manifesto teorico Piccolo organon per il teatro e nel ’50 ripubblica il dramma scritto in Finlandia nel ’40, Il signor Puntila e il suo servo Matti, una parabola sul rapporto tra borghesi e proletari. Sul rapporto con lo stato della Ddr si è scritto molto. Brecht non si iscrisse mai al partito comunista. Negli anni del suo soggiorno a Berlino est non scrisse opere nuove, ma si limitò a ripubblicare vecchi lavori e a dirigere il Berliner Ensemble. Molti hanno visto in questo un segno di ritiro dalla politica e di rapporti difficili con il socialismo reale. Altri, invece, come il filosofo Slavoj Zizek, parlano di Brecht come dell’«ultimo artista stalinista. E la sua grandezza è tale non malgrado il suo stalinismo, ma a causa di ciò». Nel ’53, quando ci fu un’insurrezione per le strade di Berlino est, Brecht approva l’intervento dell’esercito e la scelta del partito comunista. E’ convinto che la repressione militare non abbia come bersaglio ultimo gli operai berlinesi ma «alcune frangie fasciste organizzate» che sfruttano la disillusione operaia, e che abbia perciò evitato un nuovo conflitto mondiale. Farà ancora in tempo a criticare la destalinizzazione, ai suoi occhi troppo meccanica e poco dialettica. Muore nel ’56, il 14 agosto per un infarto cardiaco. Viene seppellito, secondo la sua volontà, nel cimitero di Dorothenfriedhof, di fronte alle tombe di Hegel e di Fichte.     

 

 

L’altro Brecht , poeta dimenticato

 

 

di Aldo Nove
La poesia di Brecht è sempre rimasta in secondo piano rispetto all’opera di Brecht autore teatrale. Prendiamo il caso, per noi fondamentale, della diffusione di Brecht poeta in Italia. L’opera omnia è stata tradotta e diffusa, integralmente, nel 1968 e nel 1977, negli inaccessibili - economicamente - Millenni Einaudi. Quell’edizione, estremamente curata, non è mai più stata riproposta in economica. Nei decenni si sono poi susseguite piccole antologie parziali, all’ombra dell’altro Brecht, quello “grande”, il vero Brecht del teatro. Pure, la poesia di Brecht, un apprendistato iniziato ai tempi del liceo e non mai interrotto, ci può dire dell’autore tedesco molto di più di quanto ci potremmo aspettare. La poesia come luogo altro rispetto all’ufficialità propagandistica del teatro (dei suoi riflettori) ci si presenta innanzitutto già sgombra del dibattito, a dir la verità spesso sterile, sulle intenzioni politiche di Brecht, dove per intenzioni si intende una gamma di rapporti con istituzioni e mitologie politiche che hanno fatto di Brecht una sorta di emblema di una contraddizione storica che non verrà mai risolta. Il rapporto con Luckas, la difficoltà di continuare a combattere con tutte le proprie forze il capitalismo di fronte alla percezione estremamente lucida della complessità della vicenda staliniana, i problemi concreti della Berliner Ensamble che trovano, nell’opera poetica, uno spazio di respiro. Lo stesso drammaturgo parlò, a proposito della sua opera in versi, di una “politicizzazione del privato” (operazione di cui si può anche tranquillamente invertire i termini) in cui oggi possiamo avvertire una freschezza non corrotta da problemi contingenti: quelli a cui abbiamo accennato ma anche quelli, più pratici delle riscritture (vedi il Galileo prima e dopo Hiroshima). Come a dire che, al pari, in questo caso, del suo amico Benjamin, Bertold Brecht è, nella sua poesia, individuo e individualista. Nella nota, anonima, dell’edizione dei Millenni Einaudi del 1977 leggiamo: «A differenza di altri liri politicizzati del tempo - Aragon o Eluard o Auden o Vallejo o Neruda - nella cui parola vibra sempre l’ipotesi di un popolo che le sta dietro - Brecht lo vediamo per lo più solo: davanti al figlio che studia, nel suo giardino, davanti all’autista che cambia la ruota. O anche per interposta persona: come Laotse che scrive nella casa del doganiere, Budda che congeda quasi tutti per raccontare la parabola ai pochi fidi». Certo, c’è un che di mitologico nell’iperbole di questi raffronti, quasi a volere ricostruire l’iconografia di un Brecht romantico - nel senso di solitario. Pure, dal Libro di devozione domestiche ai testi prodotti fino al 1956, la dimensione per natura breve dei testi poetici ci porta a fulminazioni stranianti che sono al contempo sintesi e evasione dai limiti in cui comunque Brecht - e da qui la sua attualità - si vuole ancora costringere. Un Brecht privato che diventa emblema di tutta l’umanità o, meglio, di un’umanità che attende fattivamente alla liberazione della storia e della sua mostruosità. Nel “cantico delle creature” rovesciato che è il “grande inno di ringraziamento” (dove emerge uno dei grandi amori di gioventù di Brecht, Villon: tema di una sua splendida poesia omonima) la “fede” materialistica dell’autore diventa anche contemplazione del creato e rabbia per chi non può parteciparvi: nelle “ninne-nanne” di “canzoni, poesie, cori” (1918-1933) è ancora la rivolta creaturale il motivo portante. La contrapposizione tra Brecht e Beckett appare, a una lettura integrale del corpo poetico del drammaturgo tedesco paragonata a quella dell’autore di Aspettando Godot più formale (radicalmente formale) che essenziale: entrambi, di fronte alla catastrofe, riportano l’orrore.

Quello di Beckett è in atto, quello di Brecht è raccontato, ma l’occhio vede le stesse cose, prova gli stessi spaventi, lo spettacolo che “l’imbianchino” prepara per il popolo tedesco è la riduzione dell’individuo (in Brecht, sempre “collettivo”) a quel vuoto interiore che in Beckett è già ridotto ai minimi termini. Diciamo che Brecht crede ancora nella realtà che sotto i piedi gli si sfalda. La peste non cancella la memoria della natura. Sono i “resti di tempi passati” dove emerge la dimensione anche classicista di Brecht poeta: “Molo tempo prima / che ci gettassimo su petrolio, ferro e ammoniaca / c’era ogni anno / il tempo degli alberi che verdeggiano irresistibili e violenti” (da Sulla Primavera). Brecht con Pasolini? E’ questo uno degli interrogativi, e degli stimoli, che la poesia di Brecht può ancora rivolgerci.   

 

Scritti di Brecht:

Bertolt Brecht, I capolavori

 

 

Scritti di Brecht:

Bertolt Brecht, I capolavori di Brecht, Introduzione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 2005, 2 voll.


Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Introduzione di Emilio Castellani, Torino, Einaudi, 1975, 3 voll.


Bertolt Brecht, Diario di lavoro (a cura di W. Hecht) [1973], Torino, Einaudi, 1976.


Studi su Brecht:

Paolo Chiarini, Bertolt Brecht. Saggio sul teatro, Bari, Laterza, 1967, 2 ed.


Theaterarbeit. Fare teatro di Bertolt Brecht.
Sei allestimenti del Berliner Ensemble (a cura del Berliner Ensemble/H. Weigel) [1961], Milano, il Saggiatore, 1969.


Paolo Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Bari, Laterza, 1970.


Furio Jesi, Bertolt Brecht, Firenze, la Nuova Italia, 1980.


Massimo Castri, Per un teatro politico. Piscator Brecht Artaud, Torino, Einaudi, 1979.


Cesare Cases - Massimo Castri - Sergio Martinotti - Giorgio Manacorda - Paolo Chiarini - Adelio Ferrero - Eugenio Buonaccorsi, Brecht oggi, Milano, Longanesi & C., 1977.


Klaus Völker, Vita di Bertolt Brecht, Torino, Einaudi, 1978.


Hanns Eisler, Con Brecht, Roma, Editori Riuniti, 1978.


Paolo Chiarini, L’oggi e l’altrove. Alcune riflessioni sulla presenza di Brecht, “Quaderni di teatro”, 1981, n. 12.


Eugenio Barba, Il Brecht dell’Odin, Milano, Ubulibri, 1981.


Claudio Meldolesi - Laura Olivi, Brecht regista. Memorie dal Berliner Ensemble, Bologna, il Mulino, 1989.


Cesare Cases, Bertolt Brecht, “Il Sole 240RE”, 8 febbraio 1998.


a cura di Marco Consolini, Barthes, Sul teatro, Roma, Meltemi, 2002

AA. VV., Brecht contro Brecht…, “il Patalogo 26”, Annuario del Teatro 2003.


AA. VV., Per una nuova performance epica, a cura di Gerardo Guccini, “Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, n, 1/2004.


Ekkehard Schall, La mia scuola di teatro. Seminari, lezioni, dimostrazioni, discussioni, Milano, Ubulibri, 2004.                     

 

Il teatro civile
nella “profezia” di Brecht

 

 

di Gerardo Guccini
La fortuna di Brecht, pur variegata e storicamente dinamica, non esaurisce nella diversità delle sue forme e tendenze il dialogo fra lo scrittore di Augusta e il mondo contemporaneo. Brecht, per noi, oggi, può costituire un interlocutore tanto più necessario e stimolante quanto meno lo cerchiamo nella proiezione scenica dei suoi drammi o nei commenti alle sue teorie, per incontrarlo piuttosto nelle corrispondenze che legano i problemi e anche certe soluzioni teatrali del presente, alla strategia e al pensiero che hanno suscitato quegli stessi drammi e teorie. Il brechtismo, insomma, si estende al di là della dialettica fra l’opera di Brecht e la sua ricezione da parte dei teatranti, degli intellettuali e del mondo sociale. Anch’esso è entrato nella zona del “dopo”: del dopo-Brecht, del “dopo dramma” (Claudio Meldolesi), del teatro post-novecentesco. All’interazione, per altro sempre dinamica, fra l’opera dello scrittore di Augusta e i molteplici usi che ne vengono fatti, si aggiunge infatti un’altra modalità di relazione, questa volta indiretta, che si evince dal confronto fra le linee di azione perseguite da Brecht e le zone della contemporaneità, che, grosso modo, corrispondono all’ambito pragmatico e culturale da queste fecondato, frequentato e indagato. E cioè all’ambito del teatro civile, che non nasce certamente con Brecht e di cui Brecht, tuttavia, anticipa le soluzioni, riconosce le possibilità e le dinamiche, e prevede gli sviluppi, con una lucidità che non esiterei a definire profetica, se con “profezia”, molto laicamente, intendiamo l’intuizione ragionata delle potenzialità d’una determinata costellazione di fenomeni e delle loro coordinate di svolgimento.

La fortuna di Brecht si intreccia, insomma, a reti di rispondenze involontarie fra i modelli d’intervento previsti o incarnati dall’opera brechtiana e gli autonomi sviluppi del teatro civile. Per poter riconoscere l’originalità e la portata di tali incontri imprevisti, occorre dunque partire dalle fasi storiche del brechtismo, che ne sono state rianimate e pervase a partire dall’ultimo decennio del Novecento.

Negli anni Sessanta, l’opera di Brecht unifica le istanze dell’innovazione e quelle della tradizione drammatica, ricomponendole in una sorte di “pax brechtiana”. Il Berliner Ensemble diventa un modello europeo, al quale si ispira, fra l’altro, la fondamentale esperienza del Piccolo Teatro di Milano. Registi come Vitez, Planchon, Strelher e Squarzina, trovano nella poetica dello “straniamento” un criterio cui riferire l’azione sugli attori. In Francia, gli spettacoli del Berliner influenzano la teoria dei segni di Barthes, mentre, in tutt’altro campo, Godard trasferisce al linguaggio cinematografico la strategia comunicativa di Brecht.

Negli anni Settanta, Brecht sembra essere diventato, in quanto avanguardia perennemente reinterpretabile, una “moda senza tempo” (così Cesare Cases). Da un lato, il teatro istituzionale non si stanca di celebrarlo (nel 1970 ben undici teatri italiani hanno in cartellone qualcosa di suo), dall’altro, gli ambiti dell’innovazione contribuiscono al mito, riscoprendo i “drammi didattici”. Testi che s’inquadrano perfettamente nel clima di accesa contrapposizione ideologica di quel periodo, sviluppando temi come l’auto/negazione dell’individuo a fronte degli interessi della collettività, l’essenza inumana del capitalismo, la negazione dei “classici” e, quindi, della tradizione. Tuttavia, questa stessa ondata innovativa, che riporta alla luce aspetti generalmente trascurati dell’opera di Brecht, implica l’eclissi della sua posizione egemone, in quanto che nega risolutamente al testo drammatico - e ciò tanto nei fatti che in linea di principio - il diritto di dettare il senso dello spettacolo e d’imbrigliare l’azione dell’attore.

Nel 1977, Adelio Ferrero, riconoscendo la crisi, ne coglie lucidamente le cause, attribuite alla refrattarietà della cultura di sinistra ad accettare modelli estetici e formali (specie se testuali) e ai nuovi impulsi irrazionalisti: «Brecht da parecchi anni, ormai, non è più nel vento. Se non sono riusciti i giovani del ’68, che pure avrebbero potuto trovarci tante cose che li riguardavano, a vincere il fastidio e l’avversione per la sua autorità paterna, non saranno certo i lacaniani delle varie scuole e confessioni a rimetterlo nel circolo delle idee e delle discussioni prevalenti». (Introduzione, in Cases - Castri - Manacorda - Chiarini - Ferrero - Buonaccorsi, Brecht oggi, Milano, Longanesi & C., 1977).

Gli anni Ottanta, con la fine delle ideologie e la rovinosa crisi del mondo sovietico, inferiscono un colpo durissimo all’esistenza postuma di Brecht. La sua memoria, non solo di scrittore, ma anche di uomo, sembra cadere sotto il tiro incrociato della critica strutturalista e dei contributi di contenuto scandalistico. All’inizio degli anni Ottanta esce uno studio del francese Guy Scarpetta che lo accusa di antisemitismo. Nel 1994, la ponderosa ricognizione dell’americano John Fuegi rincara la dose, esplorando nel dettaglio i suoi tradimenti coniugali, in un certo senso, doppiamente colpevoli, poiché compiuti dal marito d’una moglie ebrea. Nello stesso periodo, però, si svolge gradualmente e a macchia di leopardo anche una tendenza di segno contrario, che scopre nel teatro brechtiano inedite articolazioni e capacità di relazionarsi.

In questa quarta fase, il Brecht che resta dimostra una straordinaria solidità: come autore drammatico, che offre a registi e attori partiture scenicamente efficaci, come scrittore, le cui pagine resistono all’opera di frammentazione della drammaturgia di gruppo, e come inventore di atmosfere e ambientazioni teatrali, che si rigenerano al di là degli spettacoli e dei testi che li avevano originariamente espressi. In particolare, lo straordinario connubio di cabaret, espressionismo, opera, travestimento, cinismo critico e denuncia, che connota l’Opera da tre soldi, tende a riprodursi anche laddove tale dramma non è che una citazione, un ricordo, un orizzonte dell’immaginario o un’ipotesi di lavoro. Si pensi alle originali varianti di Salvatore Tramacere, di Armando Punzo e a quella recentissima di Moni Ovadia. Mentre la storica versione di Giorgio Strelher era, piuttosto, un restauro criticamente mediato degli assunti testuali.

La recente fortuna di Brecht sulle scene dell’innovazione teatrale è l’altra faccia del suo essere diventato un “classico”, e cioè un autore che resiste nel tempo, non perché permanentemente di “moda”, ma perché custodito dall’immaginario che la sua opera genera al di là delle “mode”. Entrambe queste facce, quella rivolta verso il metamorfico fluire delle esperienze artistiche e quella “classica”, che contempla la rifrazione scenica delle forme drammatiche, presentano però, se confrontate all’originaria ambizione brechtiana di rivolgersi al mondo per trasformarlo, un carattere passatista, una specie d’aura melanconica dovuta alla nostalgia per il passato potere. Gli allestimenti di questi ultimi anni (e qui ricordiamo almeno il fantasioso Cerchio di gesso del Caucaso con la regia di Benno Besson e le due Madre Courage di Mariangela Melato e Angela Winkler) non possono infatti che confermare la tesi espressa, già durante il glorioso periodo della “pax brechtiana”, da Max Frisch, il quale sosteneva che, essendo Brecht divenuto un «classico», coi «classici» condivideva la «totale mancanza di efficacia». Sia chiaro: qualsiasi prodotto dell’industria teatrale, anche se criticamente acuto o genialmente interpretato, è già di per sé, per il solo fatto d’esistere, una prova a favore di questa tesi insidiosa, che, da un lato, omette di considerare quelle impressioni strettamente individuali che veicolano attraverso infiniti rivoli l’azione dei “classici” sul presente, mentre, dall’altro, misura l’efficacia d’un fatto d’arte esclusivamente in base alla sua capacità di incidere, da potenza a potenza, sui rapporti e le strutture della vita sociale. Brecht stesso, però, aveva teorizzato la ricerca d’una simile efficacia, insegnando a reagire con irritazione e ironia alla celibe bellezza delle espressioni estetiche. Parlando dello scrittore di Augusta, sembra dunque logico trattare alla stregua d’un fallimento l’essere restato, in quanto “classico”, al di là delle “mode” e della damnatio memoriae degli anni Ottanta. «Ormai la tigre Brecht - scrive Michael Merschmeier, recensendo la Madre Coraggio di Zadek - è diventata una belva di pezza». (“Theater Heute”, luglio 2003)
Agli artisti dell’innovazione Brecht suggerisce associazioni e immagini di diversa natura, meno condizionate dal suo ruolo d’autore drammatico e più aperte alla comprensione dell’uomo Brecht, ma comunque contrassegnate da un’impressione di vuoto e di assenza, che rimanda a quanto non c’è più ed è ora impossibile. Ciò che, in lui, sembra affascinarli maggiormente è la sua inattualità imprevista, il suo essere diventato straniero, cosa che, anziché isolarlo, lo rende affine agli “inattuali” e “stranieri” delle nuove generazioni. Nel 1980, Eugenio Barba e gli attori dell’Odin Teatret, captando con intelligente tempismo la fine delle ideologie, si vollero rispecchiare nell’esule Brecht. Così, il loro spettacolo (Le ceneri di Brecht) si focalizzava, verso la conclusione, sul periodo americano, che simboleggiava, per riprendere un termine usato da Claudio Meldolesi, diverse “stranierità”: quella del Brecht postumo, deprivato, come quello americano, di addentellati concreti fra l’ideologia e il sociale, e quella degli attori dell’Odin, che dopo aver introiettato e fatte proprie le funzioni trasformative delle ideologie politiche si confrontavano con la crisi di tali matrici culturali. Immagine centrale e profetica dello spettacolo era l’esplodere senza fiamma della bandiera rossa, che scissa in uno sciame di frammenti cinerei si spargeva qua e là per lo spazio scenico.

Più di vent’anni dopo, l’assenza di Brecht e l’impossibilità di rappresentarlo dicendone fedelmente le parole scritte, innervano un altro importante spettacolo brechtiano, realizzato, questa volta, da Armando Punzo con gli attori reclusi della Compagnia della Fortezza: I Pescecani, ovvero quel che resta di Bertolt Brecht (2003).


Nell’uno come nell’altro caso, ciò che sembra poter sopravvivere di Brecht sono ricordi del passato, ricordi di un’idea, frammenti, che, in Barba, sono anche brani tratti dai testi compiuti, mentre in Punzo non mirano tanto a comporre una diversa unità dell’opera brechtiana quanto a evidenziare, con l’eterogeneità delle proprie componenti, la dissoluzione della contrapposizione dialettica fra bene e male, che, di tale opera, era stata l’origine e il fondamento. Brecht - dice Punzo - presupponeva «che ci fosse qualcosa da capire; qualcosa di buono che si contrapponeva a qualcosa di cattivo. Questa contrapposizione era estremamente forte nell’opera di Brecht, ma noi, oggi, non la viviamo più con altrettanta chiarezza». (“Prove di Drammaturgia”, n. 1/2005)
Dopo gli anni della “pax brechtiana”, dopo il periodo in cui l’opera del drammaturgo era parsa designare una “moda senza tempo”, dopo la damnatio memoriae degli anni Ottanta, si sta svolgendo una fase, che non si lascia chiudere in una definizione. Ad animarla c’è, indubbiamente, il respiro classico del dramma brechtiano; ma altrettanto determinante è il fatto che Brecht consenta d’inscenare, in termini traslati e in modo sotteso, la nostalgia per le ideologie portatrici di senso e la festa del vuoto, che si compie sulle loro spoglie.

Oltre a ciò, a partire dagli anni Novanta, i teatranti italiani agiscono in un ambiente culturale pervaso di brechtismo, spesso, inconsapevole. Il che rende possibile approssimarsi a Brecht con un atteggiamento che assomma scoperta e riconoscimento. Chiariamo ora alcune di queste rispondenze diffuse. Brecht mirava a risarcire la separazione fra scena e platea, facendo dello spettacolo un atto pedagogico e dell’attore un interlocutore consapevole e diretto, “straniato”, quindi, nella misura in cui per relazionare sé stesso al pubblico non poteva presentarsi esclusivamente come personaggio. Questo suo programma ha trovato un compimento in certe drammaturgie individualizzate del “dopo dramma”, dove l’attore, non essendo più interno alla dinamica rappresentativa del testo, tende a ricreare l’organismo diegetico al di fuori della storia, mostrandosi, cioè, nell’atto di ricomporne a vista la forma franta: entra ed esce dal personaggio, mostra la propria identità non sostituita, utilizza la parola in quanto medium del pensiero, e, dicendo pensieri, oggettiva la logica del suo comunicare. Fra l’attore epico brechtiano, il “giullare del popolo” di Dario Fo e i narratori degli anni Novanta, si snoda così, non già una tradizione fatta di memorie conservate e adattamenti pragmatici, ma un seguito di espressioni distanziate e fra loro organiche, che testimoniano la tenace vocazione civile degli artisti di teatro. Brecht, indagandola in sé come negli attori del Berliner Ensemble, ne aveva compreso, in netto anticipo sui tempi, alcune fondanti dinamiche, che si sarebbero poi riaffermate con forza nell’ultimo scorcio del Novecento, passando dalle esperienze dei gruppi a quelle, tuttora in corso, del teatro civile. Possiamo così riassumerle: senza sperimentazioni di gruppo, la vita del teatro tende a esaurirsi nella produzione di espressioni estetizzanti; senza un oggetto di comunicazione e una forma del comunicare, che sia semanticamente chiara e comprensibile, tale sperimentalismo collettivo corre il rischio di allentare il rapporto scena/platea, teatro/società; infine, l’oggetto della comunicazione non può venire formalizzato dal solo testo drammatico né essere dato esclusivamente dall’autore, che chiama perciò l’attore a collaborare alla composizione dei segni scenici. Semanticamente, la nozione di “straniamento” indica, infatti, che il performer non agisce soltanto al livello del significante - com’è proprio dell’interprete drammatico -, ma è presente in scena anche in quanto coautore del “senso” comunicato. La piena autoralità teatrale che l’autore si nega, in quanto artefice esterno allo spazio vissuto del dramma, viene invece riservata all’attore. Evocando - pur senza nominarla - la prospettiva del “dopo dramma”, Brecht individua, infatti, come l’ensemble teatrale possa facilmente evolversi in un “collettivo di narratori”, che revoca la necessità di collocare un “autore drammatico”, nel senso tradizionale dell’espressione, alla base del processo allestitivo. Scrive in un frammento edito postumo, «se l’elemento narrativo implicito in ogni tipo di teatro risulta rafforzato e arricchito, [il teatro epico] ha assolto il suo proprio compito». Il che, precisa, «non significa affatto tornare indietro. Anzi, rafforzando l’elemento narrativo, si sarà d’ora innanzi creata […] una base per le peculiarità del teatro nuovo». (Teatro epico e teatro dialettico in Scritti teatrali, II, Torino, Einaudi, 1975)