Scoprendo Bruno Brancher

Dei minori il migliore, l'unico poeta analfabeta.

di Luis Huanca Ghislanzoni

 

“Mio Dio, vorrei avere anch'io una vita normale (ma non tanto). Vorrei essere anch'io un uomo probo e virtuoso (ma non troppo)”. La vita di Bruno Brancher, ladro e scrittore, galeotto, minatore e mille altre cose è fatta di episodi picareschi e sentimento. Nato il 5 dicembre del 1931 nel quartiere Ticinese da una famiglia povera (madre di estrazione contadina e padre ignoto), scopre giovanissimo l’arte di arrangiarsi. In quei tempi, del resto, lungo il Naviglio ai ragazzini si insegna che ai poliziotti è meglio non parlare.

Brancher entra ed esce dai riformatori, poi passa alle patre galere. Quando ci riesce, evade. In una delle sue rocambolesche fughe mette a segno un colpo d’autore. Il primo furto è un successo mediatico: “Rubata la bici di Fausto Coppi”, titolano in prima pagina i quotidiani. Ma è un caso. Lui quella bici l’aveva trovata appoggiata a un muro del Vigorelli, dove il Campionissimo si stava allenando.

Al Beccaria si fa la fama di riottoso fomentatore di rivolte e assaggia le violenze degli agenti di custodia. Nel primo dopoguerra tenta il reinserimento sociale e lavora come manovale. Ma non è la strada giusta. Brancher vuole i soldi che non ha mai avuto. Così diventa un eroe della mala milanese, la “ligera” come si chiamava allora.

Esordisce come spiombatore: asporta i piombi dai vagoni merci e ruba tutto quello su cui riesce a mettere le mani. Poi passa a svuotare i cassoni dei camion dei corrieri. Di nuovo tenta di rimettersi in carreggiata. Emigra in Belgio, a Charleroi, dove fa il minatore. È un lavoro duro, che esalta Bruno. “Per scampare alla miniera – scriverà -devi essere uno tosto, di forgia, fai in qualche modo parte di un’elite”. È già presente in lui la voglia rabbiosa di distinguersi dalla massa che lo accompagnerà sempre.

Nel ’57 torna Milano dopo una parentesi parigina (“mi ospitavano le prostitute di Pialle”) e la fuga dalla legione straniera. Insomma, un giovane ladro nella Milano di quegli anni, pulita, bella, diversa dalla città grigia e deturpata di oggi. La balbuzie indirizza il suo percorso criminale. Non potendo dedicarsi alle rapine, si specializza in gioiellerie: spaccate con mazza. Per arrotondare fa l’armiere di gruppi che si dedicano a rapine più serie: porta armi sul luogo del delitto e le tiene in deposito.

“Quello che ha accompagnato e salvato Brancher in tutti questi anni sono state la sua sensibilità e la sua curiosità - dice il giornalista di Repubblica Piero Colaprico -. La tenacia gli ha permesso di resistere al carcere e di uscirne cambiato”.
Brancher però patisce la disciplina carceraria. Conosce detenuti politici che gli spiegano cos’è la dignità. La coscienza di classe lo trasforma in alfiere dei diritti dei reclusi. Sposa il ribellismo e aderisce a numerose rivolte carcerarie negli anni in cui Sante Notarnicola, Cavallero e Panizzari, tutti gangster di prima levatura, infiammano i penitenziari. È un irriducibile dalla scorza di ferro, che le prende e non molla mai. Alcune proteste gli costano un incremento degli anni di detenzione. In prigione intanto entra in contatto con Soccorso Rosso, l’associazione che paga gli avvocati ai prigionieri politici e anche ad alcuni detenuti comuni. Franca Rame vuole conoscerlo e una riduzione teatrale della sua vita diventa uno spettacolo di successo. È una storia di denuncia, in cui traspaiono chiaramente le condizioni in cui versa quel sottoproletariato urbano da cui Brancher proviene.

Brancher intreccia una fitta corrispondenza con alcuni spettatori. Coltivando questa corrispondenzanasce l’amore per la scrittura. È il “So scrivere!” del poeta analfabeta che lo lancia in una carriera letteraria decisamente originale.
Esordisce nel ’77 con “Disamori”, l’editore è Primo Moroni. Bazzica l’università irrompendo nelle aule dei giovani letterati con ciclostilati delle sue poesie. Tratteggia in breve la propria biografia e propone agli studenti un materiale strano, essenziale ed emotivamente diretto, a tratti innovativo. Quella in cui scrive è una lingua scritta mai banale, ricca di spunti interessanti, che gli vale i complimenti di Umberto Eco.

Ormai Brancher è un uomo cambiato, nella scrittura ha trovato finalmente il riscatto sociale. Le malefatte della gioventù non si cancellano, ma si collocano in una mare grigio di iniquità sociale e di desiderio di emergerne. La salute però lo abbandona. Subisce un’operazione al cuore da cui fatica a riprendersi. Viene trasferito per la degenza alla residenza Serena ad Alice Castello, a Vercelli. I medici parlano di una “costante e invalidante compromissione delle facoltà cognitive che ne hanno limitato l'autonomia nella quotidianità”. In pratica oggi è come un bambino smemorato.
Prima di entrare in sala operatoria Brancher si concede un’ultima avventura: si innamora di una ventenne con cui trascorre una notte all’addiaccio sotto le stelle. Prima si lasciarla per sempre le dirà: “Das de fà che el duman l'è semper mei de incò”.