Don Bruno Borghi,

 e la classe operaia

 va in paradiso

Enzo Mazzi

A un mese dalla morte di Bruno Borghi, il

primo prete operaio italiano, conviene riflettere

su una esperienza che ha segnato il dopoguerra

e che forse può avere ancora un significato

propositivo.

«…E’ venuto a trovarci don Borghi - raccontano

i ragazzi di Barbiana e don Lorenzo

Milani in Lettera a una professoressa - Ci

ha fatto questa critica: "A voi pare importante

che i ragazzi vadano a scuola … E’ una

scuola migliore l’officina"». Questo era Bruno

Borghi, il prete fiorentino ormai secolarizzato

che ha segnato con le sue scelte di vita,

forti al limite della provocazione, la stagione

di Firenze «città sul monte», come la

definiva La Pira nei primi decenni del dopoguerra,

crocevia di una quantità di percorsi

innovativi, crogiolo di fermenti ecclesiali,

culturali e politici capaci di sconvolgere le

ossificazioni di sistemi ideologici contrapposti,

in guerra spietata fra loro ma alleati di

fatto nell’impedire che le gabbie fossero infrante.

Fra le personalità emerse in quella stagione

don Bruno Borghi è una delle meno conosciute.

Per me è un valore. Lo conoscono

più i carcerati di Sollicciano, dove nell’ultima parte

della sua vita ha fatto il volontario,

che i fiorentini.E don Bruno èb nel cuore della

gente della Comunità dell’Isolotto per la

solidarietà e la costante vicinanza delle scelte

di vita, pur nel rispetto delle tante diversità.

Il primo prete operaio italiano

Eppure don Borghi aprì una strada di notevole

rilievo a livello nazionale che molti

poi seguirono: fu il primo prete-operaio italiano.

Oggi un prete che lavora alla catena

di montaggio di una grande fabbrica non

sconvolge più nulla. La classe operaia è in

paradiso e nelle fabbriche si celebrano pontificali.

Ma allora, negli anni della guerra

fredda e della contrapposizione feroce fra

cattolici e comunisti, la scelta della condizione

operaia da parte di un prete creò sconcerto

e scandalo.

«I santi vanno all’inferno», celebre romanzo

di Gilbert Cesbron, racconta l’esperienza

esaltante e terribile dei preti-operai. Si trattò

proprio di un tentativo di contaminazione

inaudita fra paradiso e inferno. Tanto inaudita

e sconvolgente che fu interrotta drasticamente

e condannata dal Vaticano nel

1959, creando drammatici casi di coscienza

e perfino suicidi, poco dopo che il Sant’Uffizio

aveva rinnovato la scomunica contro i

comunisti, condannando perfino i preti e i

cattolici che con i loro comportamenti «favorivano

» il comunismo.

Via le barriere

Il paradiso e l’inferno dovevano restare separati.

Andava bene anche a gran parte della

dirigenza comunista. La spartizione era

nelle cose. La vita, però, ha risorse capaci di

oltrepassare sempre gli orizzonti dati.

L’esperienza dei preti operai fu feconda.

Agli inizi degli anni sessanta avvenne una

preziosa contaminazione. La classe operaia

fu costretta a uscire dalla fabbrica per cercare

alleanze contro l’affacciarsi della crisi industriale

che insidiava l’occupazione. I soggetti

delle lotte per i servizi negli insediamenti

abitativi avevano raggiunto, a loro

volta, una maturità che li portava alle radici,

alle cause profonde della invivibilità delle

periferie abitative. Sentivano forte l’esigenza

di superare la cultura della separatezza.

Cercavano in una unità più grande e in un

progetto complessivo, capace di coinvolgere

dal basso tutta la società, lo sbocco del loro

impegno di animazione e unificazione

del territorio.

Un prete sessantottino

Si giunse così al processo di progressiva e

feconda integrazione tra fabbrica e territorio,

fra lotte sindacali e lotte per i servizi e le

riforme, fra cultura operaia e cultura dei settori

della società più legati al territorio come

le donne, gli studenti, i preti e i cristiani che

gravitavano intorno all’ambiente parrocchiale.

E siamo alla stagione del ’68-’69.

Oggi quelle esperienze possono risultare

preziose di fronte alle sfide poste alle giovani

generazioni dalla globalizzazione. Nuove

forme di contrapposizione fra altri paradisi

e altri inferni incombono. Occorre salvaguardare

la memoria, nel venir meno delle

persone che sono state protagoniste di quelle

stesse feconde esperienze.

L’Archivio della Comunità dell’Isolotto,

animato da don Sergio Gomiti, un altro dei

protagonisti di quella stagione, ha già una

sezione dedicata al tema. L’università e il

sindacato hanno una responsabilità. La

scomparsa di Bruno Borghi può essere l’occasione

per intrecciare più proficue collaborazioni.

  -il manifesto 12-8-06