Valter Careglio, Romano Armando, Roberta Martino, La guerra a casa e al fronte. Civili, partigiani e soldati della pianura pinerolese 1940-45, Pinerolo, Alzani, 2005.
Prefazione di Livio Berardo (presidente Istituto Storico della Resistenza di Cuneo)
Introduzione di Liliana Ellena
La pianura pinerolese nella bufera di Valter Careglio
Premessa
Un
territorio di fronte alla guerra
Una piccola cabina elettrica
L’economia e gli uomini
Gli
elementi di fragilità
Dall’intervento
all’armistizio
L’avvio della guerra
I
bombardamenti e gli sfollati
Dal
25 luglio all’8 settembre
Tedeschi
L’occupazione
del territorio
L’uccisione
di Sforzini a Cavour
La
calda estate del 1944
Le
cascine bruciano
Partigiani
in pianura
Repubblichini
o partigiani?
Sei
mesi di passione
Nascondersi
e curarsi
Approvvigionare
La
giustizia e la violenza
La
Brigata Nera
L’ora del terrore
“Quello
dei 200 omicidi”
La furia in pianura
Uccidere e seviziare
Ebrei
nascosti nelle campagne
La
Liberazione
Sui
fronti di guerra di Romano Armando
Simone
Cerutti: Jugoslavia conquistata e poi liberata
Giorgio Allasia: la mia campagna di Russia
Giovanni
Priotti: non dimentichiamo le sofferenze della guerra
Michele
Beltramone: due anni di prigionia in Germania
Giovanni Destefanis: ho visto sbarcare gli americani in Sicilia
La
voglia di normalità durante la guerra di Roberta Martino
Bibliografia
Gli
studi di storia locale prediligono la dimensione municipale. Quando ambiscono ad
un ambito più vasto, puntano a riferimenti provinciali. Finiscono per essere
condizionati dai confini amministrativi, mentre gli eventi sociali, politici o
militari di cui trattano faticano a farsi costringere entro le articolazioni
delle istituzioni locali. La ricerca di Valter Careglio, Romano Armando e
Roberta Martino, costruita su uno spettro di buone fonti (archivi comunali e
privati, memorialistica, notiziari della GNR, testimonianze), sfugge a questa
camicia di forza. Con scelta felice, si ritaglia come proprio scenario la
cosiddetta pianura pinerolese, un insieme di una decina di comuni che formava (e
forma) una zona omogenea dal punto vista economico e relazionale. L'area è
solcata dai primi affluenti di sinistra del Po e, quasi perpendicolarmente,
attraversata da importanti linee di comunicazione: la statali Saluzzo-Pinerolo e
Saluzzo-Carignano (accompagnata allora da una tranvia), la linea ferrata
Saluzzo-Airasca.
Essa
rappresenta lo sbocco naturale non solo delle valli Pellice e Chisone, ma anche
di quelle Po e Infernotto. I confini delle province di Torino e Cuneo si
rincorrono secondo le curve del fiume e mescolano le rispettive latitudini. Se
le guerre fasciste del '40-'43 videro anche in queste terre migliaia di uomini
strappati al lavoro dei campi o alle fabbriche e catapultati alla rinfusa su
fronti remoti, nei successivi 20 mesi della lotta di liberazione ("la
guerra in casa") le azioni dei partigiani e la repressione nazifascista
varcarono ripetutamente le linee virtuali dei confini amministrativi. Anzi un
flusso alternato di spostamenti si sviluppò fra il piano e le retrostanti
vallate. In questa zona, fin dalla primavera del '44, maturò il primo
esperimento di pianurizzazione delle formazioni partigiane (le intuizioni di
Isacco Nahoum) quale risposta ai rastrellamenti. E ovviamente anche in questi
comuni si realizzò la più ampia discesa dell'inverno del 1944/45, voluta ora
dal Comando militare del CLN piemontese per fare fronte al rigore di un inverno
aspro, alla carenza di viveri e alle difficoltà provocate dal proclama
Alexander. Furono quelli i mesi e i luoghi usati dai partigiani per curarsi (Villafranca
divenne l'epicentro di una vera e propria rete di "infermerie"),
riorganizzarsi e prepararsi allo scontro finale. Ma furono anche i giorni e i
luoghi in cui protagonisti quali Leo Lanfranco, Ennio ed Ettore Carando pagarono
con la vita il prezzo di una libertà ormai a portata di mano.
Presidente
dell'Istituto storico della resistenza per Cuneo e provicia
Il
coinvolgimento nella guerra spezza i tempi della normale vita quotidiana,
mentre, contemporaneamente, dilata gli spazi della comunicazione con enormi
spostamenti di popolazioni in tutto il territorio europeo, e non solo. Sono
queste le due principali coordinate a partire dalle quali questo lavoro
restituisce un’immagine inedita della guerra nel Pinerolese. Non si tratta
semplicemente di un importante contributo di ricerca e di sintesi rispetto alle
ricostruzioni precedentemente disponibili, ma di qualcosa di più.
Riconsiderando il rapporto tra centro e periferia, tra città e pianura, questa
ricerca mette in luce aspetti poco indagati di quegli anni.
Le
vicende e gli scenari che vengono ripercorsi in queste pagine, non solo
smentiscono alcuni luoghi comuni che vorrebbero la Resistenza tutta concentrata
sulle montagne, ma diventano un punto di osservazione particolarmente
significativo per cogliere “il tempo di guerra”. Un’operazione che si
sviluppa attraverso un allargamento per cerchi concentrici
del campo di indagine, che si sposta dagli attori che la storiografia
politica ha posto tradizionalmente al suo centro per coinvolgere le dimensioni
dell’esperienza quotidiana, dell’irruzione del carattere eterogeneo ed
estremo della violenza, delle molteplici strategie di resistenza e di
sopravvivenza.
La
guerra arriva in pianura lentamente rispetto all’inizio del conflitto. Come
giustamente suggerisce Valter Careglio, fino alla fine 1942 essa doveva essere
percepita in modo non troppo dissimile dalla prima guerra mondiale. Dopo di
allora, prima con i bombardamenti su Torino e poi con l’8 settembre, le
coordinate che definiscono l’esperienza della guerra vengono radicalmente
scardinate.
Qui
arrivano gli sfollati da Torino, si tratta non solo di un fenomeno rilevante sul
piano quantitativo come nel caso di Villafranca in cui raggiungono quasi un
terzo della popolazione, ma anche sul piano del rimescolamento sociale, attorno
a cui prendono forma reti di solidarietà informali tra mondi lontani, o
precedentemente estranei. A questo proposito il lavoro di ricerca rivela episodi
preziosi, come quelli che hanno coinvolto individui e famiglie ebraiche.
Cambia in modo radicale, in questo frangente, il binomio amico/nemico. In
un territorio attraversato da repubblichini, occupanti tedeschi e partigiani, i
contorni diventano meno facilmente
riconoscibili. La loro presenza moltiplica i rischi e la mobilitazione delle
energie obbligando la popolazione civile a scelte di campo che per un verso sono
spesso dettate dal caso e dalle strategie di sopravvivenza, e per un altro
innescano processi di politicizzazione.
Quello
che emerge dalle pagine di questo libro non è affatto una “zona grigia” o
attendista, bensì un laboratorio dei sentimenti e dei comportamenti
contrastanti che hanno visto schierarsi nella seconda guerra mondiale non solo
stati e eserciti ma paesi, appartenenze, reti sociali. Focalizzando la propria
attenzione sul territorio questi contributi
ci permettono di cogliere in primis la dissoluzione del rapporto tra
stato e società. All’interno di questo processo i passaggi e le collocazioni
degli uomini e delle donne non sempre rispondono alla logica
trasparente dell’antifascismo politico. L’incapacità dello stato
fascista non solo di esercitare il controllo totalitario, ma di proteggere e
assistere la popolazione, costituisce il punto di partenza attorno a cui si
aggrega un insieme eterogeneo di soggetti la cui presa di distanza e
conflittualità rispetto al regime si alimenta di esperienze e considerazioni
profondamente diverse.
Una
ricerca che conferma la rilevanza dell’esplorazione del territorio che si
estende tra lotta armata e resistenza civile, in cui la seconda non può essere
semplicemente ricondotta a contorno o supporto della prima. Rallentare la
produzione industriale, ostacolare la distruzione delle risorse da parte degli
occupanti, farsi carico del destino di estranei e sconosciuti, nascondere
renitenti e partigiani, sono gesti che fanno parte di un vasto lavoro di
trasformazione dell’esistente che sarà cruciale per la definizione
delle nuove forme di cittadinanza che si affermeranno nel dopoguerra. La
dimensione locale permette, infatti, di sottolineare come
in una sorta di lente di ingrandimento la crescente politicizzazione
della sfera sociale che coinvolge l’Italia tra il 1943 e il 1945. In questo
senso, uno dei principali meriti di questa ricerca risiede
nell’aver portato alla luce le tracce
di queste storie, non solo nella memoria dei sopravvissuti, ma anche
negli archivi locali facendo parlare fonti finora interrogate solo
parzialmente.
La memoria della guerra, rimane in questo quadro una memoria
profondamente divisa. Se ne colgono le tracce negli accenni allo
stereotipo del partigiano “rubagalline” o, più precisamente, nelle
responsabilità attribuite ai partigiani per la rappresaglia culminata con
l’incendio della frazione di San Luca di Villafranca. Come in altri casi, si
pensi a quello più eclatante dell’eccidio delle Fosse Ardeatine indagato da
Alessandro Portelli, addossare la responsabilità della tragedia ai partigiani
ha consentito di individuare un capro espiatorio, un referente locale,
chiaramente individuabile, che permettesse di restituire un qualche senso agli
avvenimenti, iscrivendoli in una dimensione famigliare. In questo contesto va
anche collocata la ricostruzione della vicenda della Brigata Nera di Spirito
Novena. Il tentativo è quello di darne una più precisa collocazione nella
storia. Un passaggio importante per sottrarre il terrore e la violenza alla
indifferenziata “irrazionalità del male” e restituirla, invece, ai
comportamenti e alle responsabilità dei protagonisti, ricostruendo le strutture
di potere e i contesti che resero possibili eccidi e uso indiscriminato del
terrore. Uno sforzo che prendendo le distanze dal piano giudiziario, è cruciale
per ricordare cos’era il clima di quegli anni e i soggetti che vi si
muovevano: le vittime, i massacratori e i partigiani.
Nonostante
siano passati 60 anni, questo pezzo di storia si rivela come un terreno ancora
controverso e accidentato, esito non solo delle ferite che sopravvivono nelle
memorie individuali e collettive, ma anche dei limiti e dei condizionamenti che
hanno accompagnato i percorsi della memoria pubblica nel lungo dopoguerra. Ne
sono un sintomo le numerose fonti citate dai ricercatori non ancora disponibili,
come nel caso degli archivi parrocchiali. Proprio alla luce di questi elementi
è particolarmente apprezzabile la cautela con la quale i ricercatori hanno
affrontato i molteplici piani che via via la ricerca presentava, astenendosi da
considerazioni e generalizzazioni indebite nei casi in cui le fonti al momento
disponibili si sono rivelate insufficienti, come in relazione alla questione
della fucilazione delle spie.
La ricerca lascia intravedere numerose direzioni di indagine che si spera
verranno raccolte ed esplorate in futuro. Un terreno particolarmente
interessante è quello non solo dell’occupazione nazista ma soprattutto delle
specifiche modalità attraverso cui in quest’area il rapporto tra fascismo e
società civile venne progressivamente a sgretolarsi, in un processo che non
coincide unicamente con la svolta dell’8 settembre. Un secondo ambito è
identificabile con il legame tra specifiche tradizioni culturali, oltre che
politiche, del territorio e le forme di resistenza civile. Un legame
sottolineato dalla pluralità di figure e di motivazioni che si muovono nelle
vicende analizzate. Infine, un’attenzione specifica meriterebbero le
stratificazioni della memoria delle vicende portate in primo piano da questa
ricerca. Se la memoria individuale può essere cruciale sul piano della
ricostruzione storica, essa tuttavia prende forma all’interno di contesti in
cui mutano i confini tra detto e non detto, lecito e illecito, passato e
presente. Un piano che non coinvolge solo l'evoluzione complessa della memoria
dei sopravvissuti, ma anche le modalità con le quali la memoria comunitaria è
stata assunta, od espulsa, dal paradigma antifascista dell'Italia repubblicana
nell’area del Pinerolese. La memoria, come ha ricordato recentemente
Alessandro Portelli, a differenza dei documenti scritti è sempre un atto. Ma
raccontare, dipende dall’esistenza di qualcuno che ascolti.
In
questa prospettiva la ricerca qui presentata, rivolgendosi ad un ampio pubblico
e mettendo a disposizione documenti d’archivio e fonti orali, si presenta come
un tassello importante del travagliato processo di costruzione di una memoria
pubblica. “Fare storia” non è, infatti, un monopolio delle storiche e degli
storici né di una particolare disciplina, ma al contrario specie
nell’orizzonte contemporaneo è l’esito dell’interazione di una pluralità
di soggetti. Uno scambio che è alla base dello stretto legame che intercorre
tra la formazione di una sfera pubblica democratica e le memorie degli
individui. In una società aperta le memorie sono sempre conflittuali, mentre,
al contrario, è tipico dei regimi totalitari l’imposizione dall’alto di una
visione univoca della propria storia più o meno recente. In un panorama in cui
la guerra è tornata ad essere il principale strumento di regolazione del
conflitto, è bene non dimenticare che una memoria del passato banalizzata o
congelata fa di tutti noi individui mancati e immemori, esposti più facilmente
ai movimenti totalitari.
Liliana Ellena