Federico García Lorca


Federico García Lorca

Nato a Fuentevaqueros (Granada) il 5 giugno 1898, Federico García Lorca studiò nel 1915-18 legge a Granada dove si laureò nel 1923. Nel 1919 risiedette soprattutto a Madrid. Qui ebbe come amici il professore di storia dell'arte D. Burrueta e il giurista F. de los Ríos che lo incoraggiarono a pubblicare i primi versi (1917) in un giornale di Granada, il musicista M. de Falla, e il gruppo del centro culturale Residencia de estudiantes: Dalí, Guillén, Buñuel, Alberti, Dámaso Alonso, Cernuda, Aleixandre, Salinas, Diego. Profondamente legato alla terra andalusa, scrisse poesia, teatro, musica e dipinse. Con De Falla organizzò il concorso-festa del cante jondo, il canto zingaresco della Spagna meridionale. Nel 1927 espose 24 suoi disegni di impronta post-cubista.

Nel 1928 fondò e diresse «El Gallo», rivista letteraria di Granada di cui uscirono nonostante un discreto successo solo due numeri. Nel 1929-30 fu a New York come studente della Columbia Univesity, poi a Cuba. Nel 1932 il ministero della pubblica istruzione della Repubblica (proclamata l'anno precedente) diede a Lorca e allo scrittore E. Ugarte l'incarico di organizzare un gruppo teatrale universitario, «La Barraca» che, portando i classici nei piccoli centri, doveva con tribuire a rinnovare la cultura del paese. Dopo un viaggio in Argentina e Uruguay, nel febbraio 1936 contribuì con Alberti e Bergamín a fondare l'Associazione degli intellettuali antifascisti: Lorca redige e firma, assieme a Rafael Alberti ed altri 300 intellettuali spagnoli, un manifesto d'appoggio al Frente Popular, che appare sul giornale comunista Mundo Obrero il 15 febbraio, un giorno prima delle elezioni che la sinistra vince di poco. In luglio ricevette un invito dagli Stati Uniti. Il 17 luglio 1936 scoppia l'insurrezione militare contro il governo della Repubblica: inizia la guerra civile spagnola. Il 19 agosto Federico García Lorca, che si era nascosto a Granada presso alcuni amici, viene trovato, rapito e portato a Viznar, dove, a pochi passi da una fontana conosciuta come la Fontana delle Lacrime, viene assassinato. Aveva 38 anni.


La produzione di Lorca copre un periodo non superiore a 15 anni. Dopo un libro di prose Impressioni e paesaggi (Impresiones y paisajes, 1918), la sua prima raccolta di poesia fu Libro di poesie (Libro de poemas, 1921). Seguirono: Canzoni (Canciones, 1927), Primo romancero gitano (Primer romancero gitano, 1928 ma scritto nel 1924-27), Poema del cante jondo (1931), Compianto per Ignazio Sánchez Mejías (Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, 1935), Prime canzoni (Primeras canciones, 1936 ma scritto nel 1922). Raccolte postume: Poeta a New York (Poeta en Nueva York, 1940), Sonetti dell'amore oscuro (Sonetos del amor obscuro, 1984).

Opere teatrali: Il malefizio della farfalla (El maleficio de la mariposa, 1919), Mariana Pineda (1925), La calzolaia ammirevo le (La zapatera prodigiosa, 1930), Teatrino di don Cristóbal (Re tablillo de Don Cristóbal, 1931), Nozze di sangue (Bodas de sangre, 1933).

"Nozze di sangue" è un dramma in tre atti. Mentre si preparano le nozze tra la Sposa e lo Sposo, il dialogo tra la Madre dello Sposo e una Vicina: si viene a sapere che Leonardo, ex fidanzato della Sposa e già sposato, appartiene alla famiglia dei Félix, uccisori del marito e dell'altro figlio della Madre. E' il primo cupo presagio della tragedia che incombe. Alle nozze si presenta Leonardo, e la Sposa che sente riaccendersi l'antica passione fugge con lui a cavallo nella foresta. Lo Sposo li raggiunge, sfida Leonardo e nel duello entrambi si uccidono. L'azione finale è rappresentata attraverso le parole di due boscaioli, accompagnata dal commento della Luna, simbolo di sangue e di delitto, e dalla comparsa della Morte che si nasconde sotto le sembianze di una vecchia mendicante. Il dialogo conclusivo tra Madre e Sposa conferma i presagi luttuosi accumulati nel corso della vicenda e sancisce la dura sorte delle due donne, condannate al sacrificio e alla solitudine.

Yerma (1934), Donna Rosita nubile o Il linguaggio dei fiori (Dona Rosita la soltera o El lenguaje de las flores, 1935), La casa di Bernarda Alba (La casa de Bernarda Alba, 1936) commedia in tre atti.
[La trama de La casa di Bernarda Alba, a cura di Sabrina Trulli]

Postumi: Il pubblico (El público, 1978), Commedia senza titolo (Comedia sin titulo, 1978).


Nella poesia di Lorca sono intrecciate varie linee di ispira zione e espressione lirica. La musica e il canto, la sensibilità pittorica e coloristica, la tradizione popolare e quella colta, la lezione di Jiménez e quella dei classici del seicento, il surrealismo "spontaneo" delle prime prove e quello "corretto" e più corposo delle prove più mature. Le singole linee prevalgono nelle singole raccolte: così la poesia gitana del "Poema del cante jondo", la poesia narrativa del "Romancero gitano". In "Poeta a New York" la materia aspra delle ingiustizie sociali e razziali, le alienazioni e contraddizioni della grande metropoli, suggeriscono al poeta una visione franta e concitata di segno surrealista; nei sonetti di altre raccolte coeve, torna il visionarismo gongorino, il ricordo di Shakespeare in "Sonetti dell'amore oscuro". E' una capacità incredibile di mitizzare il paesaggio, il dato erotico, il luogo comune proposto dal folclore.

Tra i più famosi testi di Lorca è il "Compianto per Ignacio Sánchez Mejía" il cui ossessivo richiamo, «alle cinque della se ra», segna di colori di immane tragedia la scomparsa di un eroe- simbolo, nel quale Lorca e la Spagna si riconoscono, ultima ànco ra prima dell'imminente naufragio:

«Tarderà molto tempo che nasca, se pur nasce, | un così schietto andaluso, così ricco d'avventura. | Canto la sua eleganza con parole che gemono | e ricordo una brezza triste tra gli uliveti».

Nel teatro alcuni di questi elementi, stilizzati, diventano centrali: il mondo andaluso dà una tragicità di sapore arcaico a sentimenti primordiali, come l'onore la gelosia l'ansia di maternità ("Yerma"), o ad antiche consuetudini come l'imposizione della castità ("La casa di Bernarda Alba").

 

 

 

.LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS
(1935)

Alla cara amica
Encarnación López Júlvez

1
Il cozzo e la morte
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.

Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!


2
Il sangue versato

Non voglio vederlo!

Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.

Non voglio vederlo!

La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.

Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.

No.
Non voglio vederlo!

Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!

Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.

Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!

No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!!


3
Corpo presente

La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.

Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.

Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.

Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.

Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.

Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.

Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.

Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.

Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.

Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.

Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!


4
Anima assente

Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.

Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.

Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.

Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.

Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.

Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.