Maestro di strada è un nome forse coniato a New York, forse in Israele, noi maestri di Napoli lo abbiamo introdotto nell'uso comune per designare in modo efficace un modo di educare diverso a quello in uso nel nostro sistema scolastico ma forse più vicino ai modi originari dei maestri.
Maestro di strada
significa mettersi sulla strada di chi vuole crescere e accompagnarlo - essere dalla sua parte e non di fronte a lui - per mostrargli la strada muovendo i passi per primi o osservandone e guidandone i passi;
significa una disposizione del cuore che è una disposizione amorosa, ossia di cura e gratuità;
significa una disposizione della mente aperta, che cerca di mettersi dal punto di vista di chi apprende, che capisce le emozioni, le ansie, le paure di chi apprende e sa essere rassicurante;
significa una disposizione della persona forte, sufficientemente ferma da contenere le oscillazioni, le debolezze, le crisi di chi sta crescendo;
significa frequentare luoghi aperti, senza reti di protezione, senza divise che ti proteggono, dove il sapere e la competenza si incontrano e confrontano con le necessità della vita e con la convivenza civile;
significa essere sempre esaminati e messi alla prova da una realtà che noi stessi contribuiamo a creare, quella di una persona autonoma che possiede saldamente la propria vita e la propria identità;
significa infine lavorare perché una relazione così intensa e coinvolgente come quella educativa, abbia un termine e che il suo successo si misuri soprattutto dal modo e dal tempo in cui si conclude.
Tutto questo è stato sperimentato da chi scrive, da alcune decine di insegnanti della scuola pubblica italiana, da alcune decine di educatori professionali, pedagogisti, psicologi nell'ambito di un progetto della scuola pubblica italiana e di altre istituzioni quali il Comune di Napoli o la Regione Campania che si chiama Progetto Chance. E' stato sperimentato nelle periferie più degradate della città di Napoli, nelle zone di guerra della criminalità organizzata, e sappiamo che è l'unico modo per insegnare a leggere scrivere far di conto, nel senso alto che questi termini hanno o dovrebbero avere, a giovani altrimenti condannati alla morte civile; ed è l'unico modo per stabilire un legame con pezzi della società che altrimenti stanno percorrendo una strada che porta loro e noi verso una non-società, verso un ordine sociale basato sulla forza e l'esclusione, piuttosto che sulla convivenza e l'inclusione.
Tutto questo per troppo tempo è stata la mera testimonianza di un gruppo 'eroico', un progetto fra tanti che affollano i margini della scuola italiana; è stato sempre in bilico e dipendente da variabili 'esogene' quali gli umori e le convenienze immediate dei politici, gli umori e le convenienze dei vari gradi della burocrazia ministeriale. Oggi per il dodicesimo anno consecutivo combattiamo una battaglia per la sopravvivenza che francamente non ci interessa molto, vorremmo invece combattere una battaglia per l'affermazione forte di una politica con i giovani che dovrebbe aiutare a migliorare la nostra società valorizzando appieno questa ricchezza piuttosto che occuparcene e male come problema. E' per questo motivo, che su sollecitazione di molti amici mi sono deciso ad aprire questo blog e spero di rendere un buon servizio alla causa che condivido con molti altri.
Sito della Associazione Maestri di Strada
Sito del Progetto Chance
Sito delle attivita' didattiche personli
I volti di Napoli, Cesare Moreno: "Così salvo i ragazzi sporchi e cattivi"
Pedagogista, maestro di strada, ha immaginato e poi messo a punto un modello di scuola dal volto umano, seguendo per quasi vent’anni centinaia di giovani “rifiutati” dal progetto educativo istituzionale
di ILARIA URBANIVENT’ANNI
fa per protesta decise di indossare i sandali, ogni giorno. Non li ha
più abbandonati. Era il suo dissenso contro il disinteresse dello
Stato nei confronti delle nuove generazioni. Un frate laico che posa i
suoi grandi occhi chiari sulle contraddizioni di Napoli, una città
che non si occupa dei suoi figli. Il volto incorniciato in una barba
incolta sale e pepe è forse oggi l’unico segno del passare del
tempo. Cesare Moreno, maestro di strada, insegnante pedagogista di San
Giovanni a Teduccio.
È
stato lui a portare nelle istituzioni il modello di una scuola dal
volto più umano e a tempo pieno, messo a punto con i suoi compagni di
viaggio, tra tutti Marco Rossi Doria. Ancora oggi a 71 anni, Moreno
lavora ogni giorno per mettere insieme i fondi dei privati e portare
avanti il metodo “Chance”. Una possibilità per i cosiddetti
drop-out, gli adolescenti che abbandonano la scuola già alle medie.
Anche lui anni prima abbandonò l’università di fisica, ma per
iscriversi al magistero. Poi la militanza a Lotta Continua dalla fine
degli anni ‘60, il volantinaggio in fabbrica a Bagnoli, le
occupazioni, la mensa proletaria di Montesanto. L’intesa con la
moglie “maestra di strada” Carla Melazzini, che dalla Valtellina
lo seguì a Napoli e che con lui ha condiviso centinaia di battaglie.
Ma la sua “prima volta” da maestro di strada aveva una data
precisa, era il 1955 e il piccolo Cesare aveva solo nove anni.
Moreno,
sua madre Concetta è stata la prima maestra di strada.
«Una
mattina mi chiese di aiutarla a convincere i bambini che non volevano
andare a scuola...».
Da
allora non ha smesso di occuparsi di marginalità. Nel ‘98 il
progetto Chance, la ministra Livia Turco lo sostenne, poi che
successe?
«Non
arrivavano i banchi, siamo partiti lo stesso. Per protesta misi i
famosi sandali. Avemmo tre sedi, San Giovanni, Quartieri e Soccavo, 16
insegnanti, ma eravamo visti sempre come altro dalla scuola, invece
noi eravamo parte del processo educativo. Dopo undici anni, dopo tante
lodi, dovevamo diventare progetto permanente, ma non accadde mai».
Quali
risultati avete raggiunto?
«Scavalcando
a volte anche i cancelli delle scuole perché non ci davano le chiavi
per entrare, abbiamo seguito 500 giovani, il 95 % ha preso la licenza
media, la metà ha proseguito in corsi professionali o scuole
superiori, alcuni sono andati all’università. Ma non abbiamo mai
smesso di occuparci dei ragazzi “brutti, sporchi e cattivi”,
quelli che lasciano la scuola perché si sentono umiliati, respinti da
una scuola che usa un solo metodo e non ammette cadute. Andiamo avanti
da sette anni con fondi privati. Il metodo si fonda sempre su fiabe,
arte, teatro, scuola pomeridiana. Mi occupo io stesso della raccolta
fondi, riesco a mettere insieme 300mila euro all’anno per pagare gli
educatori».
Chi
vi sostiene?
«Fondazioni
private, nessuna è napoletana, paghiamo gli educatori, la sede è in
corso Umberto. Oggi a San Giovanni ci appoggiamo al centro Asterix del
Comune. Ci serviamo anche del 5 per mille e poi donazioni di privati:
addirittura una persona molto benestante mi ha dato il suo stipendio
per un anno, così posso pagare una dipendente. Abbiamo individuato da
tempo una sede a San Giovanni, una scuola abbandonata. Ho raccolto già
400mila euro con il foundrising per aprirla. Aspettiamo che il Comune
ce la affidi».
Ne
ha parlato con de Magistris?
«Ci ha ricevuto, speriamo. San Giovanni con Barra e Ponticelli è una
delle zone più disgraziate. In quella scuola oltre ai maestri di
strada potrebbero operare altre associazioni che lavorano con i
giovani».
Su
cosa può puntare oggi l’educazione dei giovani a rischio
dispersione a Napoli?
«A Napoli e dintorni le prime classi delle superiori spesso si
dimezzano: alle medie tutti promossi, poi gli studenti vengono fermati
e lasciano. Noi puntiamo su quelli, vogliamo che proseguano: ci
aiutano l’arte e il teatro, con Nicola Laieta portiamo in giro la
Lisistrata. La scuola spesso diventa il palcoscenico del dramma della
vita di molti ragazzi. Come disse Toni Servillo quando ritirò la
cittadinanza onoraria, “mi hanno salvato Napoli e il teatro”. La
sua visione è anche la nostra, sostenere e costruire una città come
comunità. C’è una comunanza di visione con Maurizio Braucci e con
Roberto Esposito. Sono amico di lunga data di Erri De Luca, ci vediamo
quando possiamo, ci unisce lo stesso sguardo su Napoli. I maestri di
strada sono guidati dalla frase di Danilo Dolci “Ciascuno cresce
solo se sognato”: è quello che desideriamo accada per i ragazzi
delle periferie di Napoli con un impegno collettivo».
Rispetto
a vent’anni fa come è cambiata oggi l’adolescenza nelle periferie
a Napoli e nel centro storico con le “paranze dei bambini”?
«Il
fenomeno criminale è cresciuto, come anche la dispersione scolastica,
ma la scuola è solo un anello della catena. La camorra è iolenza
organizzata, ma prima c’è la violenza diffusa in tutta la città:
occupiamoci intanto di quella con gli strumenti educativi, con
coerenza e impegno. È inutile riempirsi la bocca di legalità,
educazione, trasparenza, se poi siamo pronti a respingere nelle scuole
chi è diverso o non segue lo schema precostituito. Napoli deve
decidere che rapporto vuole stabilire con i suoi figli: su questo in
città vedo troppo silenzio, per ora».
Intervista a Cesare Moreno
Cesare Moreno. “Maestro di strada”, prima di tutto. Insegnante sui generis, fondatore insieme con sua moglie Carla Melazzini, anche lei insegnante e scomparsa nel 2009, del “Progetto Chance”: iniziativa di capitale importanza sociale e volta alla neutralizzazione della dispersione scolastica nei quartieri più difficili della città di Napoli. Un’opera attiva ormai da anni e realizzata grazie alla preziosa collaborazione di operatori, educatori, insegnanti, dirigenti, “genitori sociali”, psicologi e volontari, in grado di riportate nuovamente a scuola, tra i banchi, centinaia di ragazzi, considerati aprioristicamente da insegnanti tradizionali come definitivamente “dispersi” e invece giunti fino al diploma. “Dalla crepa di un muro in rovina può sbocciare un fiore meraviglioso”: è una delle frasi scritte da Carla Melazzini nel libro dal titolo “Insegnare al principe di Danimarca”, edito da Sellerio nel 2011, vincitore del Premio Siani 2011 e curato appunto da Cesare Moreno, ormai cuore pulsante del Progetto Chance.
È racchiuso tra le pagine di questo libro, il resoconto poetico e appassionante di questa esperienza educativa. Di seguito, vengono riportate alcune considerazioni del curatore dell’opera, Cesare Moreno, colte nel corso di una presentazione, rispondendo ad alcune domande e raccontando la sua esperienza e quella dei “Maestri di strada”.
A proposito del libro e del suo messaggio:
Quest’opera non parla di Napoli, non parla di scuola e non parla di disgraziati. Ma parla di Danimarca, di principi, e di persone che non hanno problemi. Penso che questa sia la migliore introduzione al libro scritto da Carla Melazzini e da me curato, insieme con il gruppo di insegnanti del progetto di cui faccio parte. Questo perché, dopo oltre un anno di lavoro su questo libro, posso dire che l’obiettivo è sempre stato quello di evitargli, a tutti i costi, lo scaffale della pedagogia. E se nel suo piccolo è diventato un successo, con oltre 8000 copie vendute, se non erro, conferma che abbiamo lavorato bene, parlando direttamente alla gente, agli educatori, ai genitori: ci sono molte più persone che sono capaci, dunque, di apprezzare questo modo di parlare dei giovani, ossia parlando dall’interno della loro vita, mai dall’esterno.
Perché non parla di Napoli e di scuola, il libro? Che cosa significa?
Perché parla della vita e di come si entra nella vita, nient’altro. Perché forse c’è ancora qualcuno che non se n’è accorto, ma la scuola è la nostra frontiera interna, è la nostra spiaggia di Lampedusa sulla quale sbarcano i giovani che vengono da un luogo che non c’è, entrando in un luogo invece che c’è, con le sue regole, le sue configurazioni: un luogo che non vuole negoziare con loro, ma imporre un modello. La scuola è un luogo di frontiera: se non si capisce questo, non si capirà mai perché la scuola è così emarginata, attualmente. Il modello scolastico degli anni ‘50 escludeva sulla base del censo: “non ho i soldi, dunque non vado a scuola”. Questa scuola invece, attualmente, esclude su basi ideologiche, antropologiche. Che tradotto significa: “i miei modi di vivere non sono i tuoi, quindi sei fuori”. Noi abbiamo coniato questa espressione, invece, e cioè cha “la scuola è un luogo di incontro antropologico, non il luogo in cui si insegna e basta”. La Costituzione dice che i capaci e meritevoli vanno aiutati, ok, va bene. E gli incapaci e gli immeritevoli? Cosa ne facciamo? In Italia ci sono all’incirca 500.000 ragazzi che dovrebbero frequentare la scuola dell’obbligo e che non lo fanno. È questo, il problema.
Quale lo scacco rispetto alla vecchia scuola e ai suoi metodi?
Eravamo i sessantottini, fino a qualche anno fa e non venivamo presi molto sul serio, almeno prima del lancio del Progetto Chance. Adesso finalmente siamo i sessantottenni, ed è molto meglio, così magari non ci rompono più con questa storia. Ad ogni modo, posso dire che siamo stati tra i pochi, e siamo ancora oggi tra i pochi, in grado di esercitare l’autorità e non l’autoritarismo, che non è affatto operativo, tutt’altro. Noi ci siamo ribellati a certi metodi scolastici, all’epoca, ma non è vero che abbiamo “abolito i padri”, come si diceva. Noi li abbiamo interiorizzati.
Qual è il metodo dei “maestri di strada”?
Lo dice bene Carla nel libro, una frase che sintetizza tutto il nostro lavoro, il nostro credo: la scuola non può partire lasciando fuori il dolore, semplicemente. Ma anzi deve partire dal dolore. Una scuola che dice lasciamo fuori le emozioni è una scuola che sta castrando le proprie possibilità di interagire con i giovani. Quali dolori? Quali emozioni? Un esempio su tutti, ancora una volta, nel libro: la storia di Lello, ossia il vero principe di Danimarca, il nostro principe, di cui si racconta la vicenda e il processo di liberazione compiuto, attraverso la scuola. Lello è stato abbandonato dalla madre quando aveva 11 anni, insieme alla sorella, di 10. E insieme ad altri 4 fratelli,perché la madre si è innamorata del principe azzurro. È l’Amleto del libro, la sua sofferenza, al centro di tutto. Ed è da lì, dalla sua storia interiore, che siamo partiti: da quello che aveva dentro, il quale lo portava a comportarsi nel modo sbagliato. Questo, il metodo.
https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-cesare-moreno/