Vladimir Majakovskij
nasce a Bagagadi, in Georgia, nel 1893. Suo padre è un nobile decaduto che si presta a lavori umili, come forestale. Giovanissimo, Vladimir si appassiona alla poesia, che legge e che recita in un costante monologo interiore. Presto conosce e diviene amico di Velimir Chlebnikov, poeta sperimentalista che ha fondato il gruppo Hyleano. Anche per l'entusiasmo teorico profuso da Majakovskij, il gruppo iniziale si allarga e si tramuta nella leggendaria cerchia dei cubofuturisti. La voracità intellettuale di VM è leggendaria, la sua presenza fisica imponente ne fa una sorta di divo spettacolare. Il successo del poema Tu!, steso durante gli anni della Prima Guerra mondiale, è debordante e del tutto imprevisto. L'adesione di Majakovskij alla Rivoluzione d'Ottobre lo rende ancor più popolare e amato. La celebrazione dell'industrializzazione sovietica, poi, non fa altro che proiettarne la figura ai ranghi elevati dell'intellighentsija rivoluzionaria. E' una situazione destinata però a incrinarsi. L'avvento di Stalin e la palese trasformazione degli ideali rivoluzionari in gestione del potere nelle mani di un tiranno non possono essere esenti da un violento attacco, che Masjakovskij non intende negarsi. La sua situazione sentimentale (per anni partecipa a un devastante triangolo amoroso che vede protagonisti, oltre a Vladimir, la bellissima Lili Brik e suo marito Josip) e le contingenze politiche gettano tuttavia il poeta in uno stato di estrema prostrazione psicologica. La morte, avvenuta per supposto suicidio nel 1930, è ancora un capitolo ambiguo della storia sovietica: alcuni storici hanno messo in dubbio la versione del suicidio amoroso e hanno indicato la probabilità che Majakovskij sia stato "suicidato" da sgherri del regime.
A
te,
fischiata
e schernita dalle
batterie,
a te,
piagata dalla maldicenza
delle baionette,
levo con entusiasmo
ad aleggiare sull'insulto
dell'ode il solenne
«oh!».
Oh, ferina!
Oh, infantile!
Oh, pezzente!
Oh, grande!
Come chiamarti ancora?
Come ancora ci apparirai,
di fronte?
Armonioso edificio
o ammasso di macerie?
Al macchinista,
impolverato di carbone,
al minatore che perfora
strati di minerale,
tu dài,
tu dài il tuo pio
incenso,
e glorifichi il lavoro
umano.
Ma domani
il beato Vasili
invano innalzerà,
implorando mercé,
le capriate della
cattedrale,
i grifi ottusi dei tuoi
sei pollici
diroccheranno i millenni
del Cremlino.
Rantola il Gloria
nell'estrema crociera.
Strozzato è lo strido
delle sirene.
Tu mandi i marinai
sull'incrociatore che
affonda,
dove,
dimenticato,
miagolava un gattino.
E dopo!
Urlavi, folla ubriaca.
I baffi baldanzosi
arricciati alla brava.
A Helsinki sbatti fuori,
a capofitto dal ponte,
canuti ammiragli col
calcio dei fucili.
Lecca e rilecca le ferite
di ieri,
io vedo sempre le tue
vene recise.
È per te il filisteo:
«Oh, sii tre volte
maledetta!»,
ma anche il mio saluto
di poeta:
«Oh, quattro volte
gloriosa e benedetta!». |
Battete sulle piazze il calpestio delle rivolte! In alto, catena di teste superbe! Con la piena del secondo diluvio laveremo le città dei mondi. Il toro dei giorni è screziato. Lento è il carro degli anni. La corsa il nostro dio. Il cuore il nostro tamburo. Che c'è di più divino del nostro oro? Ci pungerà la vespa d'un proiettile? Nostra arma sono le nostre canzoni. Nostro oro sono le voci squillanti. Prato, distenditi verde, tappezza il fondo dei giorni. Arcobaleno, dà un arco ai veloci corsieri degli anni. Vedete, il cielo ha noia delle stelle! Da soli intessiamo i nostri canti. E tu, Orsa maggiore, pretendi che vivi ci assumano in cielo! Canta! Bevi le gioie! Primavera ricolma le vene. Cuore, rulla come tamburo! Il nostro petto è rame di timballi. |
Cantilenano le brigate dei vecchi la stessa litania. Compagni! Sulle barricate! Barricate di cuori e di anime. È vero comunista solo chi ha bruciato i ponti della ritirata. Basta con le marce, futuristi, un balzo nel futuro! Non basta costruire una locomotiva: fa girare le ruote e fugge via. Se un canto non saccheggia una stazione, a che serve la corrente alternata? Ammonticchiate un suono sopra l'altro, e avanti, cantando e fischiettando. Ci sono ancora buone consonanti: erre, esse, zeta. Non basta allineare, adornare i calzoni con le bande. Tutti i soviet insieme non muoveranno gli eserciti, se i musicisti non suoneranno la marcia. Portate i pianoforti sulla strada, alla finestra agganciate il tamburo! Il tamburo spaccate e il pianoforte, perché un fracasso ci sia, un rimbombo. Perché sgobbare in fabbrica, perché sporcarsi il muso di fuliggine, e, la sera, sul lusso altrui sbattere gli occhi sonnacchiosi? Basta con le verità da un soldo. Ripulisci il cuore dal vecchiume. Le strade sono i nostri pennelli. Le piazze le nostre tavolozze. Non sono stati celebrati dalle mille pagine del libro del tempo i giorni della rivoluzione! Nelle strade, futuristi, tamburini e poeti! |
Gridano al poeta: «Ti vorremmo vedere accanto al tornio. Che sono i versi? Roba da niente! Certo che a lavorare mica ce la faresti». Forse, il lavoro è per noi più caro d'ogni altra occupazione. Sono anch'io una fabbrica. E se non ho ciminiere, forse, per me senza ciminiere è ancora più difficile. So bene che non amate le frasi oziose, voi. Per lavorare, fendete la quercia. E noi? Che forse non facciamo col legno lavori d'intarsio? La quercia delle teste lavoriamo. Certo è cosa rispettabile pescare. Tirare la rete. E prendere storioni! Ma non è meno rispettabile il lavoro del poeta: prendere gente viva, e non pesci. Una fatica enorme bruciare davanti alla fucina, temprare i metalli sibilanti. Ma chi può accusarci d'essere oziosi? I cervelli forbiamo con la lima della lingua. Chi è superiore: il poeta o il tecnico, che conduce gli uomini al benessere? Sono uguali. I cuori sono motori. E l'anima è un motore altrettanto complesso. Siamo uguali. Siamo tutti compagni operai. Proletari di spirito e di corpo. Soltanto insieme abbelliremo l'universo e lo faremo rimbombare di marce. Contro i diluvi di parole innalziamo una diga. All'opera! A un lavoro vivo e nuovo. E gli oziosi oratori, al mulino! Fra i mugnai! A girare le macine con l'acqua dei discorsi. |
Cerchiamo il futuro, abbiamo percorso chilometri di strada. Per poi sistemarci da noi stessi in un cimitero, schiacciati sotto i marmi dei palazzi. Una guardia bianca, la scovate, e al muro. Ma Raffaello l'avete dimenticato? Avete dimenticato Rastrelli? È tempo che le pallottole risuonino sulle pareti dei musei. Fuciliamo l'anticaglia coi pezzi da cento pollici delle nostre gole! State seminando la morte nel campo nemico. Che non capitiate a tiro, mercenari del capitale. Ma lo zar Alessandro non s'erge ancora sulla Piazza delle insurrezioni? Là, la dinamite! Avete schierato cannoni lungo la radura, sordi alle blandizie delle guardie bianche. Ma Puskin perché non l'avete attaccato? E tutti gli altri generali della classicità? Ci siamo messi a difendere le anticaglie in nome dell'arte, o sarà che il dente delle rivoluzioni s'è spuntato contro le corone? Più presto! Dileguate il fumo sul Palazzo d'inverno, fabbrica di maccheroni! Per qualche giorno che abbiamo sparacchiato fucilate, già pensiamo: lasceremo il passato con un palmo di naso. Ci vuol altro! Cambiar di giacca fuori, è poco, compagni! Rivoltatevi di dentro! |
VLADIMIR MAJAKOVSKIJ (Bagdady, Georgia, 1893 - Mosca, 1930)
Ascoltate!
Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che qualcuno vuole che esse siano?
Vuol dire che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?
E tutto trafelato,
fra le burrasche di polvere meridiana,
si precipita verso Dio,
teme d'essere in ritardo,
piange,
gli bacia la mano nodosa,
supplica
che ci sia assolutamente una stella,
giura
che non può sopportare questa tortura senza stelle!
E poi
Cammina inquieto,
fingendosi calmo.
Dice ad un altro:
"Ora va meglio, è vero?
Non hai più paura?
Sì!?"
Ascoltate!
Se accendono
le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che è indispensabile
che ogni sera
al di sopra dei tetti
risplenda almeno una stella?
(traduzione di A.M. Ripellino)