The Manifest
Un tatzebao: "Pintor come agnelli"
Per chi c'era e per chi non c'era. E per chi c'era e se ne è andato. Rossana ci raconta i primi giorni di vita del giornale, roba del secolo scorso ma accidenti, quanto attuale in fatto di scelte politico-editoriali. Il tutto con il giornale al costo di 5 euro, un nulla per la libertà di stampa. Con la complicità, questa volta, di Staino e di Bucchi, e del Ministero della grafica per il manifesto, Progetto Lefloft, per l'inedita testata.
ROSSANA ROSSANDA

Chi di memoria

ferisce di memoria

perisce. Ho inflitto

un poderoso malloppo di

ricordi ed eccomi addetta

ai medesimi. I boss de il

manifesto vogliono far

sapere per 5 euro quando

è nato, a chi è venuto in

mente, i primi vagiti.

Allora. Siamo alla fine del

1970. Non è saltato in

mente di fare un

quotidiano né a Lucio

(Magri) né ad Aldo

(Natoli) né a me, che su

l’Unità avevamo scritto di

rado e non proprio pezzi

brillanti. E’ venuto in

mente a Luigi (Pintor), che

aveva lavorato a l’Unità

per venti anni, erano

celebri gli editoriali

fulminanti e aveva una

gran voglia di provare un

giornale diverso. Era

anche un po’ matto, ma

un po’ matti eravamo

tutti. Fare un quotidiano

pareva un’enormità: per

me era come se, avvezza

al più ad andare in

bicicletta, si proponesse di

colpo di guidare un

aeroplano. Non ci voleva

una organizzazione

grandiosa? No, replicava

Luigi, ce la facciamo, di un

giornale vero, libero,

niente partito e niente

proprietà, ce n’è bisogno.

Ma occorrerà un mare di

soldi! Ma no, gli altri sono

pieni di pagine inutili e

pubblicità. Noi poche

pagine, pubblicità niente,

pochi redattori, scriviamo,

impacchiamo, spediamo

tutto da soli. Vedrete.

E va bene. Cerchiamo i

pochi soldi. Nella

memoria di qualcuno è

rimasto che abbiamo

cominciato con 50 milioni

- no. Saranno stati dieci o

quindici. Quattro ne

pescai fra gli amici di

sinistra francesi, due da

Simone Signoret e Yves

Montand, tornai a Roma

tutta fiera. Trovammo un

mezzanino in via

Tomacelli, rumoroso e

buio. Scrivanie e

macchine da scrivere

erano di seconda o terza

mano, venerande.

Compagni che bruciavano

dalla voglia di gettarsi

nell’avventura non

mancavano ("E’ la

stampa, bellezza!, dice

Humphrey Bogart e tutti si

sognavano come lui,

senza borsalino e in

eskimo). Ne avremmo

fatto vedere delle belle ai

prepotenti. Venivano a

proporsi di lavorare da noi

da tutte le parti.

Luigi prese delle

precauzioni. Portò con sé

da l’Unità un redattore

capo adulto e scafato,

Michele Melillo, uno che

alle sette ci avrebbe fatto

consegnare tutto e

avrebbe "chiuso" vivo o

morto. Inoltre Luca

Trevisani, altro esperto

redattore e fratello di

Giuseppe, grande grafico,

che aveva pensato un

giornale rivoluzionario e

quindi rivoluzionato. Via

le pagine inutili dei grandi

quotidiani, tutta fuffa

(chissà che cosa direbbe

Trevisani adesso vedendo

gli sterminati Corriere o

Repubblica). Il lettore

andava informato, non

sedotto e tantomeno

imbrogliato. Che

consumasse auto, belle

ragazze o creme non

importava niente. E

neppure che ingoiasse

ciecamente quel che le

pagine altrui

proponevano con titoli

grandi e medi e piccoli,

noi no. Come ci saremmo

permessi di indicargli che

cosa era importante e che

cosa no? Lui, il lettore dei

nostri giorni, lo avrebbe

deciso. Era - quella

imparata nel 1968 - una

libertà adulta e vaccinata,

si doveva aver rispetto di

chi comprava e sfogliava

le poche pagine, senza

fronzoli, tutta notizia

essenziale, rinunciando

alla classica

impaginazione che

impone una gerarchia.

Noi dovevamo darle, le

notizie, il che era già una

prima selezione, ma poi il

lettore ne avrebbe deciso

da solo l’importanza:

basta con le pedagogie,

non eravamo più a scuola.

Trevisani disegnò quattro

pagine che erano tutte a

una colonna, un nastro

come si dice in gergo, un

titolo (sobrio) dopo l’altro

a seguire, anche, come in

un libro, da una pagina

all’altra. Secco e chiaro,

niente dato per supposto

(per esempio non: "Prodi"

ma "Il presidente del

consiglio Romano Prodi ",

a costo di ripeterlo ogni

giorno, perché magari uno

compra il giornale per la

prima volta nella vita).

Ricordo stese sul tavolo,

belle e lucenti, le prime

quattro pagine di prova,

severissime, fittissime, il

volto di Luigi affascinato e

perplesso. Era davvero

troppo. Non so se siano

rimaste da qualche parte -

ma era un’altra idea del

giornale, della stampa,

dell’informare, l’opposto

delle lenzuola sterminate

che in treno neanche puoi

aprire senza invadere chi

ti è seduto accanto.

Insomma anche Luigi

arretrò. Natoli le trovò più

noiose di un bollettino

parrocchiale. L’altra che di

giornalismo sapeva,

Luciana (Castellina)

esitava anch’essa, e

Valentino (Parlato) aveva

un’aria scettica.

Insomma il manifesto di

Trevisani non vide mai la

luce come era pensato da

quell’uomo geniale che

morì troppo presto. Le

pagine restarono quattro,

ma ognuna per sé, senza

giri. Le divisioni classiche

restarono, internazionale,

interni, lotte raggruppati.

Le colonne da una

divennero due - titoli

chiari a due colonne.

Ci voleva un editoriale,

non firmato o firmato?

Firmato. O siglato. Per

primo, ad aprire? Non

necessariamente. Davanti

alle prove, severissime,

astratte, alla Malevic, Luigi

defletté e inventò il

sommario: una striscia in

alto su ogni pagina, non

un titolo, un

ragionamento di tre righe.

La pedagogia rientrava

alla grande, l’attenzione

era attirata con clamore. Il

primo numero uscì con il

reportage di K. S. Karol su

una comune cinese

(scriveva da là) e una

notizia su Mirafiori: il

mondo, pensavamo,

ribolliva dalle lande

tecnologicamente più

arretrate a quelle più

avanzate, il bisogno era lo

stesso, maturo.

Quell’aria giansenista,

spoglia, il rifiuto della

terza pagina "culturale",

dello spettacolo, della

narrazione, della

fotografia, della

pubblicità, insomma

dell’attrattiva e della

distrazione ci sembrava

necessario - era un’idea di

noi e degli altri che non

reggemmo. Faziosamente

alta.

Cominciammo così e

bisognerebbe veder

quanto durò quella

severità. Quando declinò.

Quando pensammo che la

politica pura, cioè la storia

presente di ogni giorno,

non bastasse a se stessa,

fosse collegata alla

cultura, al libro, al film o

alla cronaca della società

(dove non brillammo

mai). Intanto in quei

primi giorni fummo divisi

per squadre. Luigi mise

me, Natoli e Lisa Foa,

tenuti d’occhio da Luca

Trevisani, agli esteri -

sezione che reputò

sempre superbiosa,

separata e rompiscatole.

Diceva che era così in ogni

giornale, fatale. Non

dimenticherò il suo urlo

una volta che chiedevamo

più spazio in prima:

"L’Argentina non esiste!".

Non era davvero nato ieri,

Luigi, ma la sua priorità

eravamo noi, quel che

succedeva qui, la lotta, il

venir fuori d’una

soggettività ardente e

finora negata dalla stampa

di tutti i colori. Studenti,

operai. E così pensavano

anch’essi, gli studenti e gli

operai. Quando nel 1972

andai in Cile, scrissero i

calzaturieri del Brenta,

"ma chi se ne frega di quel

riformista - intendevano

Allende - occupatevi delle

lotte qui". Sartre, del resto,

non mi aveva detto molto

di diverso, di un riformista

non c’era gran ché da

occuparsi, avrebbe

mollato. Invece Allende

un anno dopo, assediato

dalla destra militare, si

uccise invece che mollare

- ma erano altri tempi.

Luciana e Luigi

lavoravano con i più

giovani agli interni,

Ninetta (Zandegiacomi) al

sindacato con Ritanna

(Armeni) che venne presto

e un giorno mi disse

sospirando con vera

tristezza: "Pensa, ho già

venti anni!". Le finanze le

amministrava Filippo

Maone, con calcoli ancora

fatti a mano, e ottimisti.

Eravamo più che

parsimoniosi e quando si

aggiunse Beppe Crippa

non se ne parla. Rocco

Pellegrini e Grazia Gaspari

erano Roma, il movimento

romano. Roberto

(Silvestri) e Mariuccia

(Ciotta) erano rannicchiati

in un bugigattolo detto

"archivio". Una volta

scoprimmo che di cinema

sapevano tutto, e li

spedimmo alla mostra di

Venezia con poche lire e

alcuni indirizzi di

compagni dove dormire

(mangiare, si mangiavano

panini).

In ogni modo l’unicità

della politica - quella

politica, niente a che

vedere con oggi - era

spezzata. La spezzarono le

pagine culturali, Severino

(Cesari) e il domenicale,

dalle quali passò mezza

intellettualità italiana e

forse più, poi la Talpa di

Bascetta, poi Notarianni,

poi Ida Dominijanni, poi

Mauro Paissan - e c’era già

Gianni (Riotta), il piu

piccolo e una redazione a

Milano, da cui Carla

(Casalini) e Lidia

(Campagnano) sarebbero

calate a Roma. La metà

eravamo donne. Mi

ricordo, in quel casino, i

tempi esatti. Arrivavano a

nastro con le notizie, le

persone, le creature,

giovani donne, giovani

uomini.

Fummo noi a inventare la

cultura non-da-terzapagina,

è sicuro. Ci lavorò,

scopro, anche il mio

vincitore allo Strega,

Veronesi. Ci lavorò Eco,

che poi ebbe uno scontro

con Pintor - su che? Mah.

Ricordo un corsivo acerbo

di Luigi ed Eco che se ne

va. Fummo noi a

obbligare i giornali italiani

a occuparsi di politica

estera. Altro che storie,

l’Argentina la

imponemmo. All’epoca i

grandi quotidiani erano

tutta una roba provinciale,

da Palazzo, fossero state

almeno le lotte.

Di me di quei primi giorni

ricordo una paura, che

non osavo confessare.

Sarei andata agli esteri,

naturalmente, ma non

avevo la più vaga idea di

come funzionassero.

Immaginavo che tutti i

paesi nonché tutti i

movimenti facessero

notizia, fittissima, ogni

giorno, inondassero le

agenzie, e io come avrei

saputo scegliere? Come

non avrei fatto buchi

formidabili? Finché

scoprendo le prime

agenzie - quelle grandi,

che ancora vomitavano

carta - mi accorsi con

stupefazione che davano

pochissime notizie, altro

che un mare e torrenti -

rigagnoli, e sempre le

stesse. Poteva passare un

mese senza che citassero

non dico la Tanzania, ma

neppure il Giappone.

Citavano le crisi di

governo. Da allora, se

avessi i soldi non farei un

quotidiano ma una

agenzia.

Questo fu il primissimo

manifesto. Melillo, che

dubitava assai che io

sapessi scrivere meno di

25 cartelle per volta, mi

fece fare il compito, Cile o

Bolivia, non più di venti

righe. Eseguivo. La notizia

e l’intervista mi

appassionano anche oggi

più dell’editoriale.

Viaggiavamo poverissimi,

sciagurati, pestando le

tastiere disastrate delle

pubbliche poste mentre

gli altri inviati

sorseggiavano un whisky

in clamorosi alberghi. Ma

tutta la sinistra, e allora

era tanta, ci riceveva e

sapevamo più di loro. Ci

davamo moltissime arie.

Era bello e angosciante,

bisognava chiudere presto

per arrivare in tipografia,

ai treni, alle macchine. Se

succedeva un colpo di

stato in Bolivia alle 19.45

eravamo fritti. Che diavolo

scrivevi? Sfogliavamo di

fretta i Keesing’s. Poi ci

precipitavamo giù dai

linotipisti, ci

macchiavamo tutti di

inchiostro correggendo

alla rovescia i caratteri

afferrati con le pinzette - il

che non impedì che

uscisse il "subcosciente"

indiano invece che il

subcontinente indiano, i

"pedrodollari" invece che i

petrodollari, mai che la

"estinzione" dello stato

diventasse estensione, e -

mi perseguita ancora - lo

spirito "militare"

diventasse spirito

militante del Pci. Ora i

nostri propri linotipisti

siamo noi, via l’inchiostro,

i flani, la puzza - tutto è

cambiato, salvo che il

giornale nudo e crudo,

pezzo di carta che esce

dalla pressa, torna a farsi

lento, roba da portare di

qua e di là, pacchi da fare

e consegnare mentre la

notizia è ormai volata da

ore per il mondo. Il lavoro

di tutti e su tutto evaporò

presto.

Basta. Via Tomacelli era

tutto un disordine, un via

vai, una invasione.

Studenti, collettivi

nervosi, protestavano per

questo e per quello. Pintor

si chiudeva in una stanza,

indifferente. Valentino

trattava. Il centralinoingresso,

dominato da

Giovanna, orientava i

flussi. Una volta fummo

occupati anche da Pio

Marconi e un suo corteo

in nome di Bakunin, per

non so quale

imperdonabile silenzio da

noi calato borghesemente

su non so quali masse

romane.

Si usciva

avventurosamente, in

disordine, all’ultimo

minuto. Si impacchettava

di notte, all’inizio tutti si

provarono a tutte le

mansioni, ritirandosi poi

vilmente davanti alle

spedizioni e al centralino.

Il giornale arrivava dove

poteva.

Pintor pensò che

occorreva un po’ di ordine

e una mattina, nei

primissimi giorni, mandò

a tutte le sezioni una

specie di nota di servizio:

orari, tempi, presenze.

L’indomani entrò, sempre

rannuvolato in se stesso, e

non si accorse che

all’ingresso scendeva dal

soffitto al pavimento un

enorme tatzebao: "Pintor

come Agnelli", fitto di

indignazione contro la

burocrazia, i comandi, gli

orari. Non ne aveva

bisogno nessuno, il

manifesto era tutto

pronto, tutto libero, tutto

insubordinato. Io

guardavo preoccupata.

Che avrebbe detto Luigi?

"Come Agnelli". Come un

padrone. Era offensivo.

Ma Luigi andava e veniva

senza vederlo, nel silenzio

di tutti.

Dovetti mostrarglielo: Ah

sì? Lo esaminò con

curiosità. Ma guarda.

Dovette dedurne che

quello eravamo, e

pazienza.

E rientrò a scrivere