UNA CITTÀ n. 83 / Febbraio 2000
MICHELE GALLUCCI

UN NUOVO MODO DI MORIRE

L’istituzione anche in Italia di hospice, luoghi specializzati per accompagnare i malati senza speranza, segna un cambiamento radicale nel rapporto con il morire. La lotta alla sofferenza inutile, il sostegno alle famiglie, la cura di quegli aspetti culturali e psicologici per forza di cose trascurati in ospedale. L’assurdità della mancanza di franchezza e dell’insistenza su cure senza speranza. Intervista a Michele Gallucci.

Michele Gallucci, Unità di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’Ospedale di Desio, è direttore della Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative di Milano.

E’ stata finalmente varata anche in Italia una legge per l’istituzione di hospice per la cura dei malati terminali. Cosa comporterà?
Si tratta della legge 39, del 26 febbraio 1999, che prevede la creazione di almeno un hospice per regione (ma è prevedibile che saranno molti di più). Insieme alla legge sono stati promulgati due decreti, uno concernente i "requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, minimi per i centri residenziali di cure palliative"; l’altro, non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale, è intitolato "Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative". Questi stabiliscono come gli hospice debbano essere fatti, come debbano essere organizzate le cure palliative in Italia, come debba essere attuata l’assistenza. Con la legge e i due decreti sono stati stanziati 256 miliardi, dei quali 42 toccheranno alla Lombardia.
Questo è un cambiamento straordinario, epocale. Per la prima volta in Italia si prendono in considerazione i malati terminali. Adesso ci sono sei mesi di tempo per presentare al ministero i progetti di hospice, dopodiché nell’arco del prossimo anno e mezzo in Italia cambierà completamente il modo di morire.
Questo ovviamente si scontrerà con tutta una serie di difficoltà.
La prima è che la popolazione italiana non è preparata a un simile cambiamento, e quindi bisognerà che le regioni adottino, come del resto è previsto nei decreti, programmi di educazione della popolazione. Per fare in modo che gli hospice vengano identificati come luoghi positivi, in cui si offre la migliore cura possibile per la qualità di vita e in cui non si tenta di prolungare la vita a tutti i costi, con mezzi tecnologici, in modo insensato. Senza una tale preparazione la gente in questi posti non ci vorrà andare.
La seconda difficoltà sta nel fatto che in Italia non esiste alcuna forma di specializzazione medica o di preparazione specifica per infermieri e altre figure professionali che abiliti, che qualifichi a lavorare in questo campo del tutto nuovo. Sarebbe come decidere di introdurre l’anestesia senza avere a disposizione degli anestesisti. Quindi, parallelamente alla prossima grande diffusione degli hospice, bisognerà trovare e formare almeno 4-500 medici e 2000-2500 infermieri. Il fatto è che, non essendoci stata una crescita progressiva, non ci sono posti che abbiano da tempo sperimentato questa soluzione, dove andare a imparare. E la legge, invece, prevede che in tutta Italia nascano contemporaneamente questi centri. L’università si adeguerà, istituirà dei corsi, gli studenti di medicina saranno opportunamente preparati, ma prima che i corsi di specializzazione diano i primi risultati passeranno 6-7-8 anni. Quindi la formazione del personale resta un grande problema.
In un primo momento, quindi, gli stessi hospice saranno luoghi di sperimentazione...
Certo, gli hospice saranno essi stessi luoghi di ricerca, perché nessuno sa bene come debbano essere organizzati. Ci sono delle direttive, ma sono state fatte sulla base di opinioni di esperti, non sulla base di ricerche scientifiche. Teniamo presente che qui cambia tutto: i farmaci che noi usiamo normalmente sono pensati, anche nei dosaggi, e in tutto quello che c’è scritto nel foglietto illustrativo, per la persona che sta abbastanza bene, che guarirà e che ha una malattia per volta. Qui invece abbiamo una persona che non guarirà, che sta sempre peggio e che ha tante malattie e problemi insieme. Allora, anche l’effetto dei farmaci non è assolutamente prevedibile. Io so abbastanza bene cosa succede se prende un’aspirina una persona i cui organi funzionano abbastanza bene: l’aspirina entra, si scioglie, passa nel fegato, entra nel sangue e poi viene eliminata; ma non possiamo sapere cosa succede in un organismo che si sta sfasciando. La ricerca è ancora tutta da fare.
Poi c’è la ricerca psico-sociale: nessuno sa cosa succede a uno che sta morendo; nessuno l’ha mai studiato. Abbiamo l’esperienza dei reparti in cui si muore, della geriatria; abbiamo i modelli di quegli autori, ormai di trenta-quarant’anni fa, che descrivevano la morte come un processo a tappe: prima la contrattazione, poi la depressione, poi l’accettazione. Ma restano modelli teorici, nella pratica nessuno sa bene cosa succeda nella testa di chi sta morendo. Non solo, ma non viene insegnato nemmeno qual è il processo normale della morte. Se in questo ospedale, in questo momento un malato cominciasse a morire, perché ha un infarto, un’emorragia, a nessuno salterebbe in mente che, data la sua storia di malattia, di sofferenza, bisognerebbe semplicemente lasciarlo morire accompagnandolo con i provvedimenti adatti. No, la morte è vissuta sempre come un incidente critico; si chiama sempre il rianimatore. Non c’è nella testa dei medici l’idea della morte naturale. Nell’insegnamento di medicina il concetto di "morte naturale" non è previsto. Tutte le volte che un medico, a casa, a domicilio, per strada o in ospedale, ha a che fare con un malato che si sospetta stia morendo, immediatamente mette in atto tutta la potenza della medicina per tenerlo in vita. Anche dopo una lunga storia di malattia, quando sei di fronte a malattie progressive, a organi vitali ormai incapaci di mantenere in vita, noi sostituiamo artificialmente un organo, e poi un altro, e un altro ancora: quand’è che ci si ferma? Noi continuiamo a sostituire le funzioni che cedono, ma la malattia non è stazionaria, perché il cancro non è come il diabete, il cancro va avanti, devasta. Noi curiamo la metastasi ossea a destra, ma il mese dopo viene a sinistra e allora noi continuiamo a inseguirla, ma fino a quando? Se in un pronto soccorso arriva un malato terminale che sta morendo per un’emorragia, il medico dovrebbe chiedersi se nel fargli una trasfusione gli sta allungando la vita o semplicemente la sofferenza. Allora deve subentrare nella mentalità dei medici, ma anche della gente, che esiste una morte naturale. Ecco, nell’hospice se un malato comincia a morire, lo si lascia morire.
Il problema di fondo è che la gente non vuole sentirsi dire che la medicina ha dei limiti. E se l’attenzione alle cure palliative, senza bisogno di pubblicità, senza finanziamenti, senza il sostegno delle case farmaceutiche, sta crescendo spontaneamente in tutto il mondo, è perché tanti medici e infermieri non ce la fanno più a sopportare l’angoscia di dover combattere battaglie che sanno perse. Ho dei manuali recentissimi americani e canadesi in cui perfino il concetto di cura palliativa, di cura dei sintomi cioè, è ormai sopravanzato da un nuovo concetto, che è "End of life care", la cura della fine della vita. "Medical care of the dying" è un manualetto per i medici (ce n’è uno anche per i familiari a casa e c’è pure il manuale più grande) dove si spiega ai medici che c’è un modo naturale di morire e che la cura medica del morente è una cura uguale a tutte le altre; solo non ha l’obiettivo di tenere in vita.
E’ un cambiamento culturale di grande portata...
Nella medicina precedente c’erano solo due possibilità: il malato o moriva o guariva. Se la sofferenza è grave, non è lunga; se è lunga non è grave: questo era il modello ippocratico. Oggi invece, tra il malato che guarirà entro poco tempo e il malato che morirà entro poco tempo, siamo in grado di creare una terza situazione in cui il malato viene tenuto artificialmente in vita, ma non guarirà; uno stato indefinito, che tuttavia è uno stato di terrore, non è uno stato di benessere.
Sa qual è il momento peggiore per un malato? Non è la diagnosi e non è neanche la fase preliminare. Il momento peggiore è la prima recidiva. Perché alla diagnosi ci sono ancora tutte le speranze; si fa la terapia e poi si dice: aspettiamo. Passano un anno, due anni, tre anni; se la malattia non si riforma, ragionevolmente uno è guarito, anche se la certezza c’è solo dopo molti anni. Ma se la malattia riprende, quello è il momento peggiore. Ci sono ovviamente ancora grandissimi spazi di cura e terapia, ma la prima recidiva è il momento vero della condanna. Se si è riformata, sarà difficile stroncarla completamente. E quindi certamente questo è uno stato di morte annunciata. Salvatore Natoli, che è un filosofo, riconosce appunto che la medicina moderna è in grado di creare una situazione che non è la salute, il benessere; "è uno stato di orrore sospeso sulla morte".
E allora a questa gente bisogna almeno offrire il sollievo dalla sofferenza. E non continuare a imbrogliarli sul fatto che gli viene rimandata la morte.
Cambia il rapporto fra medico e paziente?
Certo, e questo è ciò che suscita in tanti medici resistenze fortissime. Possono condividere l’impostazione, ma fanno fatica ad accettarne le conseguenze, che comportano un ribaltamento del loro atteggiamento di fondo. Se l’obiettivo fondamentale non è più salvare la vita, ma togliere la sofferenza, cioè curare la qualità di questa vita, chi diventa il depositario della qualità di vita? Il malato. Nel salvare la vita è il medico che decide perché il malato si affida completamente a lui. E’ un contratto o alleanza terapeutica che il malato stringe con il medico in base al quale accetterà anche le imposizioni più drammatiche e dolorose in cambio dell’aver salva la vita. Ma se il contratto non c’è più, perché lui non può più salvare la vita, in nome di che cosa il malato si dovrà affidare al medico? Che cosa può dargli di più di quello che può darsi da solo? Ecco che allora l’atteggiamento del medico deve cambiare: la terapia sarà guidata dal paziente e il medico è il tecnico che può offrire la sua competenza nel risolvere i problemi, può consigliare il farmaco o la dose migliore per togliere il dolore o far dormire, ma sarà il malato a decidere se vuole togliersi il dolore, se vuole dormire. In questo caso il medico non può dire: "Qui lei deve assolutamente dormire", come dice in tutti i casi in cui sia necessario un intervento chirurgico con anestesia.
Quindi ci vuole un posto adatto, specializzato...
In realtà per accompagnare questa morte naturale, il posto meno adatto è proprio l’ospedale. Perché nell’ospedale, appena uno arriva, gli fanno gli esami del sangue, che a quel punto non hanno più alcun senso; gli fanno la radiografia, che non ha alcun senso; chiamano tutti gli specialisti. Se uno ha un tumore del polmone, con metastasi al cervello e alle ossa, chiamano l’ortopedico, il quale dice: non c’è niente da fare; poi il neurologo che dirà a sua volta: guardate che non c’è niente da fare. Insomma, non c’è più niente da fare, però intanto il malato subisce il peso di questi esami ormai del tutto inutili. Del resto l’ospedale funziona così: se lei va in un supermercato non può comportarsi come se entrasse in una boutique. E’ un supermercato, le cose funzionano in quel modo. Qui è la stessa cosa: c’è un meccanismo automatico, tutto organizzato per salvare la vita, che però diventa perverso, in quanto causa di ulteriore sofferenza per il malato terminale.
Quali saranno i requisiti indispensabili dell’hospice?
La legge definisce molto bene i "requisiti minimi strutturali": si dice dove andrà localizzato, ossia all’esterno o all’interno dell’ospedale, ma con alcune caratteristiche fondamentali. Per esempio dovrà essere facilmente raggiungibile, quindi non isolato, marginalizzato; dovrà avere alcuni servizi essenziali, fra i quali quelli dedicati alla gestione della morte. Normalmente in un ospedale l’obitorio è nascosto sotto terra; qui, dove la morte è frequente, si dice: "camere mortuarie in numero idoneo, raccomandabile una ogni 8 letti"; ci dovrà essere lo "spazio per i dolenti", la sala per il culto, ecc. Questi servizi saranno dentro l’hospice, non nel sotterraneo.
E’ previsto che nei reparti ci siano delle cucine ad uso del malato e dei familiari, che così potranno cucinare quello che preferiscono. Qui non ha più alcun senso dire: colazione alle 5 di mattina, pranzo alle 12 come si fa abitualmente in ospedale.
Poi l’hospice deve avere tutti i requisiti tecnologici. Non sono posti marginali con quattro muri e due letti. Anche qui il malato deve avere tutto, o almeno quello che avrebbe se fosse in ospedale: per esempio la climatizzazione, l’impianto di illuminazione d’emergenza, le tubature per l’aspirazione, l’ossigeno, la possibilità di fare degli esami, delle radiografie.
Certa tecnologia sarà usata pochissimo, però deve esserci. Non è un posto dove regna l’abbandono, è un luogo concepito apposta per questi malati; esattamente come esiste la pediatria per i bambini, la geriatria per gli anziani, questo è il posto per i morenti.
Ci sono poi i requisiti organizzativi: come dev’essere fatto l’hospice, come si deve integrare con gli altri servizi esistenti che si occupano dei malati terminali, quindi i medici di famiglia, i distretti, i servizi sociali comunali, le attività di volontariato, i reparti da cui i malati vengono dimessi, i medici che hanno avuto in cura il malato.
Ci devono essere spazi per il giorno; ci dev’essere spazio per lo studio, per fare la ricerca; ci dev’essere un’alta qualità dell’assistenza. In un reparto ad alta tecnologia il personale non può essere solo per il 70% esperto; in un reparto di chirurgia o in un’unità coronarica tutti hanno una formazione adeguata per esercitare l’alta tecnologia; non ce n’è uno sì e uno no. Ecco, qui si parla di un reparto a bassa tecnologia, ma ad alta qualità dell’assistenza. Per la stessa ragione, non si possono accettare in un hospice delle persone un po’ incapaci, però buone, gentili, o altre che si trovavano male nel reparto di chirurgia e allora li mettiamo nell’hospice perché tanto coi morenti non è che ci sia molto da fare. No, l’alta qualità dell’assistenza comporta una grande preparazione su tutti i temi citati; queste persone, se non hanno esperienza, dovranno fare dei corsi per acquisire queste competenze, che non fanno parte della loro formazione.
Poi ci sono i problemi spirituali, perché uno che sta morendo qualche problema se lo pone. E noi siamo assolutamente impreparati, non sappiamo neanche da che parte si comincia. In Italia il problema sembra abbastanza semplice perché siamo tutti cattolici, però se lei questo problema lo porta in una società multi-culturale e multi-razziale, e l’Italia sta diventando così, allora anche quello che sembrava normalissimo, chiamare il prete, non è più tanto normale. Perché in questi hospice non solo avremo malati di diversa cultura, razza, religione, ma anche tra chi cura ci saranno persone di diversa cultura, razza, religione. Potrà quindi succedere che un marocchino venga curato da un medico indù, magari con un’infermiera ebrea.
E lì nasceranno dei problemi perché qual è il modo giusto? Qual è l’antropologia di quello che sta morendo, quali sono le sue abitudini? Nessuno lo sa, o meglio si sa, ma non è oggetto di insegnamento, di esperienza.
Ecco, l’hospice deve tener conto anche di questo aspetto. E poi in un reparto ospedaliero lei può imporre che le visite dei parenti avvengano dalle 5 alle 6 per quel discorso che si faceva prima: "Qui si salva la vita alla gente, lasciateci lavorare". Ma in un hospice? Non si salva niente, al massimo il paziente muore e allora non ha senso alcuna restrizione. Il malato vuole il cagnolino? Perché non glielo si deve dare? Vuole attaccarsi i quadri alle pareti? Ma va benissimo. Vuole mangiare, fumare, bersi una bottiglia di whisky al giorno? Perché no? Lo ripeto: nell’hospice si ribalta completamente il concetto di cura, di assistenza. Ecco perché non possiamo mettere una porta a metà di questo corridoio d’ospedale, piazzare qualche letto dove verranno ricoverati dei malati terminali e chiamarlo "hospice". Non è questa l’idea.
Il rapporto con la famiglia sarà decisivo per la qualità del servizio di un hospice...
All’università non si insegna a medici e infermieri la medicina sul territorio e a casa. La formazione di un medico è fortemente ospedale-centrica. Lo studente di medicina si immagina che uscendo dall’università andrà a lavorare in ospedale, per cui tutte le strategie, i comportamenti, le procedure e i modi di fare a casa non vengono insegnati. Invece è evidente la rilevanza degli aspetti psico-sociali che coinvolgono la famiglia, che contemporaneamente è soggetto e oggetto di cure.
Una famiglia può essere molto ben organizzata, avere risorse, energia, e in questo caso l’hospice sarà un sostegno, un aiuto affinché il malato possa morire nel suo contesto. In questo senso l’hospice e la casa devono essere due luoghi che hanno la stessa funzione; il letto dell’hospice deve essere il prolungamento del letto della casa. Se un malato per qualsiasi ragione, igienica, di difficoltà della cura, non può essere tenuto a casa, viene tenuto nell’hospice. Ma sono proprio simili come intensità di cura e presenza di persone.
Però la famiglia può anche essere devastata da questa esperienza. La frase tipica che si sente dire da donne di 40-50 anni, figlie o mogli di persone che stanno morendo è: "Io non ho mai visto morire nessuno. Cosa succede? Come si fa a capire? Cosa faccio alle 3 di notte se sta male? Come faccio a capire che sta morendo?". Questo è il supporto che chiedono le famiglie. E noi dobbiamo ricordare che se vogliamo curare la persona che sta morendo, dobbiamo anche occuparci della famiglia. E in generale direi che sono più le famiglie che non ce la fanno di quelle che ce la fanno. Ecco allora la necessità di psicologi, assistenti sociali, volontari, ossia di tutto un apparato che aiuti questi malati.
Ci sono poi casi di conflitti abbastanza strani. Per esempio ci può essere una situazione in cui il malato vuole essere curato da quell’infermiere, ma la famiglia non lo vuole. Ebbene, la casa è del malato o della famiglia? Sono casi estremi, ma succedono. Oppure ci sono situazioni di conflitto familiare: un ragazzo e una ragazza si sposano, lui si ammala e la moglie che si è appena sposata, oltre alla perdita del marito, deve subire anche la presenza dei suoceri che risucchiano il malato, perché "se è malato, lo curiamo noi". Per cui questa donna lo perde due volte. In una coppia giovane questo è un problema drammatico.
Oppure, che cosa succede agli adolescenti quando muore il padre o la madre, non di una morte improvvisa, ma di una morte preparata, annunciata, che incombe per lungo tempo e loro non vengono preparati, consultati? Tutti si concentrano sul malato senza rendersi conto che si sta creando anche una patologia, una situazione di rischio, per coloro che stanno intorno al malato e non sono preparati. Questo è un altro degli effetti non previsti della morte. Esiste una patologia del lutto attestata da studi molto approfonditi: i superstiti dei malati che muoiono male sviluppano di più tutte le malattie. Un gruppo di vedove, per esempio, negli anni subiscono più ulcere, infarti, suicidi, insonnia, depressione rispetto a un gruppo di donne con le medesime caratteristiche di età. Significa che la popolazione in lutto è una popolazione a rischio. Ma in Italia nessuno ha mai neanche cominciato a preoccuparsi di questo tipo di rischi.
Quindi si dedicheranno delle risorse a chi muore. Anche questo è il segno della grande novità di questa legge?
Lei pensi solo all’enorme impegno di risorse che la società dedica a una vita che nasce: comincia da alcuni mesi prima che il bambino nasca, con gli aiuti, i supporti, le cure alla madre; prosegue con l’intervento, nel processo della nascita, di molti professionisti diversi, il ginecologo, l’ortopedico, l’ostetrico, il puericultore, e poi con un aiuto dello Stato alla famiglia, che può durare fino a tre anni dopo la nascita del bambino. Per una vita che muore, invece, fino a oggi non c’era neanche una lira, e tuttora non esiste la possibilità di avere delle ferie per assistere il morente; il massimo è tre giorni. Ora si cominciano a vedere i primi provvedimenti: per esempio l’Emilia Romagna dà 100 mila lire al giorno a una famiglia che si tenga a casa il malato; si riconosce, cioè, un valore sociale all’impegno della famiglia nell’assistere il morente.
Teniamo sempre presente i dati, che ci dicono che questo non è affatto un problema marginale: in Italia muoiono ogni anno circa 600.000 persone, cioè circa l’1% della popolazione. Di questi decessi, un quarto avvengono per cancro, poi ci sono le malattie cardiovascolari, gli incidenti, le morti accidentali, le morti naturali. Possiamo quindi considerare che almeno un terzo di tutti coloro che muoiono sono malati terminali, cioè malati che muoiono in un modo prevedibile, dopo una malattia e una lunga sofferenza. 150.000 persone all’anno, un milione e mezzo in 10 anni. Quindi non sono cifre piccole.
C’è anche un problema di mancanza di franchezza nei rapporti fra medico e paziente?
Secondo la legge della Bindi le cure palliative saranno inserite nel processo normale di cura e smetteranno di essere qualcosa di marginale, per cui quando proprio non si sa più cosa fare: "Vabbé, chiamiamo anche quelli delle cure palliative". Saranno una delle opzioni: se uno ha un tumore potrà fare la chemioterapia, o potrà fare le cure palliative, oppure entrambe. Oggi non è così, l’offerta è solo chemioterapia. Nessuno si sogna di proporle, perché sembrerebbero riduttive. Lo stesso malato direbbe: "Ma come, allora mi considerate già un morente?".
E qui certamente c’è un problema di franchezza. Se uno ha un tumore al pancreas, per esempio, nella testa del medico quello è già un morente, ma sarà molto riluttante a dirglielo. Dirà piuttosto: "Proviamo", "Facciamo...". Ma di fronte a probabilità ormai irrilevanti il malato dovrebbe, quantomeno, avere la possibilità di scegliere. Tra l’altro spesso si tratta di mesi e mesi di una terapia che comporta gravi sofferenze, e il medico sapeva fin dall’inizio che le probabilità di successo erano dell’1%.
Qui evidentemente si ripresenta la questione della formazione: come dire al proprio paziente che le possibilità che lui muoia sono altissime?
In America c’è il filone dei cancer movie, film in cui i protagonisti sono dei malati di cancro: ora, non vedremo mai il dramma ruotare attorno al problema dell’informazione, al fatto che il paziente non sappia la verità. Uno sa di avere il cancro e allora c’è il problema del figlio, della moglie, l’eredità, i soldi, l’amore, la morte. Perché lì, per definizione, i malati sanno la verità.
In Italia, se dovessero fare un film del genere, il primo problema sarebbe tutto il rivolgimento, il dramma dei familiari: "Glielo diciamo, non glielo diciamo", la congiura del silenzio e via dicendo.
Insomma, è un problema di cambiamento di costume, di cultura. Io stesso, lo ammetto, ho delle difficoltà. Recentemente è capitato che una dipendente di questo ospedale non volesse essere curata da noi perché ha pensato: "Se mi curano loro, significa che sto morendo". Una specie di ragionamento magico analogo a quello del bambino che si mette le mani sugli occhi credendo di non essere visto. Non è che non ti vedono, sei tu che non vedi. E però questi atteggiamenti vanno rispettati. Difatti noi siamo rimasti disponibili e quando lei è peggiorata l’abbiamo ricoverata qui. Un punto cruciale dei corsi che noi facciamo riguarda infatti il modo in cui si danno le cattive notizie. Per un medico italiano dare cattive notizie è ancora una cosa molto difficile; non ce la fa, proprio non riesce.
Uno dei timori più forti è che, attraverso le cure palliative, si voglia introdurre l’eutanasia in Italia...
E’ proprio il contrario: le cure palliative sono una protezione dalla tentazione dell’eutanasia. Se un malato soffre moltissimo potrebbe avere la tentazione di chiedere l’eutanasia; se c’è qualcuno che gli toglie almeno quella sofferenza forse non chiederà l’eutanasia. Il che, però, non vuol dire che le cure palliative risolvano il problema dell’eutanasia, perché ci sarà sempre quel malato che, nonostante le buone cure, dirà: "Per me una vita così non è degna di essere vissuta".
Quindi, bisogna scindere il dibattito sulle cure palliative da quello sull’eutanasia, ma non illudersi che le cure palliative risolvano il problema. In realtà lo stesso concetto può essere usato in un modo o nel modo completamente opposto: "Ah, voi volete introdurre l’eutanasia. Certo cominciate con il dargli un po’ di morfina, lo addormentate e quello muore". Non è così, però il dubbio sussiste. Viceversa: "Ah bene, di eutanasia non si deve più parlare, perché tanto ci sono le cure palliative". Sono false tutte e due le posizioni, ma il sentiero è strettissimo e si rischia di cadere di qua o di là.