Un clima di piombo

da Renzacci- Lottare in Fiat

 Nella sua impostazione politica la Fiat ha sempre teso a dimostrare un collegamento tra violenza operaia, militanti rivoluzionari e terrorismo. La violenza nei cortei interni ed ai picchetti è stata una componente innegabile nell’esplosione delle lotte degli operai Fiat nei primi anni ‘70. Le origini di questa componente dell’esperienza operaia possono essere diverse. Qualcuno ha messo in luce la provenienza contadina di molti comportamenti che in certi tratti richiamavano le forme della jacquerie, a più sostanzialmente l’uso della violenza deve essere spiegato con il forte clima di controllo poliziesco e di repressione interna che prima del 1969 dominava gli stabilimenti. Non va dimenticato, come ampiamente emerse nel processo di Napoli sulle schedature, che la Fiat disponeva di un poderoso apparato di spionaggio e repressione: 357.077 schedature realizzate tra il 1949 ed il 1971, un ufficio speciale con un organico di 31 “accertatori” a tempo pieno e centinaia di collaboratori foraggiati, nelle questure, tra i carabinieri e nei servizi segreti39.  Per anni la Fiat rispose alle lotte con migliaia di provvedimenti disciplinari, trasferimenti e licenziamenti. Per riuscire a licenziare alcuni militanti combattivi l’apparato aziendale in qualche caso non disdegnò di organizzare provocazioni, inscenò ad esempio tentativi di furto facendo ritrovare proprio materiale negli armadietti personali degli spogliatoi. Per tutta la prima metà degli anni settanta i picchetti di sciopero dovevano fronteggiare gruppi organizzati di capi e crumiri che tentavano di aprirsi la strada con metodi tutt’altro che pacifici. La Fiat per incentivare gli sfondamenti riparava a proprie spese le auto dei crumiri eventualmente danneggiate dagli scioperanti e questo per alcuni anni fece sì che ad ogni sciopero, come kamikaze alla guida del proprio Zero, diversi crumiri si gettassero a tutta velocità contro gli operai dei picchetti. Un gioco pericoloso che in genere permetteva loro di entrare, anche se non sempre con la propria auto in buone condizioni, ma tanto pagava la Fiat. Anche polizia e carabinieri in quei primi anni ‘70 erano stati fondamentali nell’educare gli operai Fiat e dopo un po’ di interventi delle forze dell’ordine, gli scioperanti avevano imparato che era meglio darle che prenderle. A Mirafiori, dopo il 1976 non si verificarono né cortei interni particolarmente duri né scontri violenti ai picchetti. Oramai era cresciuto il consenso del sindacato e l’autorità della lotta era unanimemente rispettata, inoltre la Fiat aveva fatto piazzare enormi porte blindate negli accessi che portavano dalle officine agli uffici che in caso di agitazioni venivano immediatamente chiuse. I cortei interni avevano perso il loro fascino e la loro utilità: non era particolarmente divertente e utile gridare slogans e battere i tamburi nelle officine deserte. Nel contratto del 1979 rimanere dentro gli stabilimenti era diventato talmente improduttivo che la combattività operaia si riversò all’esterno della fabbrica, nei blocchi stradali e ferroviari. Quando nel 1977 le organizzazioni terroristiche, Brigate Rosse e Prima Linea, cominciarono un’escalation di azioni armate contro dirigenti della Fiat, questa non corrispondeva ad una crescita della radicalità delle forme di lotta, anzi stava avvenendo l’esatto contrario. La lotta armata non fu in alcun modo una continuazione del conflitto operaio, ma un fenomeno importato, nelle sue origini largamente estraneo all’esperienza di lotta della Fiat e di Torino. Come ricostruisce Revelli sulla base dei dati del Ministero degli Interni furono in tutto 62 gli operai della Fiat coinvolti nelle organizzazioni armate, la maggior parte con ruoli minori, con la sola eccezione di Luca Nicolotti e Lorenzo Betassa che fecero parte della direzione strategica delle Brigate Rosse. Nonostante il forte interesse che per i terroristi aveva la classe operaia più combattiva del paese, le numerose azioni armate contro dirigenti Fiat e la propaganda indirizzata agli stabilimenti, se anche in una prima fase le azioni armate riscossero una certa simpatia, non riuscirono mai a conquistare sostegni significativi. La logica dell’azione terrorista clandestina era necessariamente all’opposto del ruolo giocato dai militanti più combattivi nello sviluppo della radicalità della lotta. Come ha fatto giustamente notare Giuseppe Berta, “ spesso il brigatista era dissimulato sotto le spoglie del militante operaio magari duro, ma fortemente in linea con l’organizzazione cui apparteneva alla luce del sole. Il suo metodo di infiltrazione faceva ricorso ad un regime di doppia verità che gli consentiva di muoversi sul luogo di lavoro utilizzando la copertura sindacale, alle cui norme mostrava di conformarsi. Insomma, si nascondeva più volentieri nei panni del delegato o dell’attivista ligio alle parole d’ordine ufficiali dei metalmeccanici che in quelli del delegato estremista, conservando la sua identità eversiva esclusivamente per la cerchia dei solidali. Quando nel marzo del 1980, in uno scontro con i carabinieri, morirà a Genova il delegato Fim di Mirafiori Lorenzo Betassa, non saranno in pochi a stupirsi per una militanza clandestina a lungo ben camuffata”40. Un dirigente Fiat, Rinaldo Camaioni che nel 1977 fu ferito da terroristi, conferma quanto fossero male indirizzati i sospetti della direzione aziendale: “..nessuno di noi, allora, avrebbe capito che il terrorista non doveva andarlo a cercare tra le persone violente, tra quelle che fanno casino. Perché loro non lo faranno mai casino! Bisognava andare a cercarli tra le persone di cui mai avresti sospettato! Quando mi hanno telefonato […] che in via Fracchia avevano trovato Betassa, credevo stessero scherzando”41. Come si è detto, le prime azioni dei terroristi, suscitarono una certa simpatia tra i lavoratori, vuoi perché rispondevano ad un certo cliché culturale che considerava in modo positivo le azioni dei “giustizieri mascherati”, vuoi perché nel rancore accumulato per anni, lo sparo di pistola era considerato una disgrazia meritata, come se si trattasse di un malanno o di un incidente automobilistico capitato a coloro cui è stato augurato del male. Successivamente con il crescere delle azioni terroristiche, e soprattutto degli omicidi, le simpatie diminuirono, anche se rimase per diversi anni un atteggiamento qualunquistico e rancoroso che leggeva la discussione sul terrorismo e le iniziative contro di esso come un tentativo di diversione rispetto ai problemi “reali” dei lavoratori. Poi vi furono una serie di fatti che forse più di altri influirono in una svolta di atteggiamento dei militanti e dei lavoratori della Fiat. Il primo fu l’incendio, a colpi di bottiglie “molotov” del bar Angelo Azzurro, considerato dall’estrema sinistra torinese un covo di fascisti. Nel rogo, che doveva essere la ritorsione per le uccisioni di diversi militanti di sinistra avvenute in quei mesi del 1977, morì tragicamente il giovane Roberto Crescenzio. La sua immagine, dove lo si vedeva morente e orribilmente ustionato, componeva una mostra fotografica contro il terrorismo realizzata dal sindacato che fu esposta in tutte le fabbriche. Gli avvenimenti dell’Angelo Azzurro spinsero l’area dell’estrema sinistra ad una nuova consapevolezza e a disfarsi dei servizi d’ordine e del connesso armamentario ideologico militarista. Nel marzo del 1978 le Brigate Rosse nell’agguato di via Fani a Roma rapirono il leader della Dc Aldo Moro, uccidendo tutta la sua scorta. Gli scioperi indetti immediatamente dal sindacato, non ebbero un grande successo alla Fiat. La risposta dei lavoratori fu inizialmente piuttosto qualunquista, ma poi nei tre mesi del sequestro e soprattutto dopo l’assassinio di Aldo Moro la lontananza dalla logica dei terroristi emerse con più nettezza. Il terzo avvenimento fu sicuramente l’uccisione da parte delle Brigate Rosse di Guido Rossa, militante del Pci e delegato della Fiom all’Italsider di Genova nel gennaio del 1979. Quella volta i terroristi avevano colpito tra i lavoratori, nel sindacato, nella sinistra e la loro logica si era disvelata in tutta la sua aberrazione. La presa di coscienza degli operai Fiat contro il terrorismo non fu facile e ancora durante il rapimento Moro si potevano sentire commenti del tipo: “.. Io, caro compagno, sono uno che ha dato l’anima per le lotte, per me era una soddisfazione fare gli scioperi. Però oggi, porca madonna, mi fanno perdere decine di ore contro il terrorismo. Quale terrorismo? Guardiamo dov’è il terrorismo: è solo quello delle Brigate Rosse ? Si devono condannare le Br perché hanno rapito Moro e hanno fatto fuori quegli altri? Va bene: stanno facendo il processo alle Br. Però, a quelli che stanno al governo chi è che gli fa il processo? Nessuno!42. Nonostante le ambiguità dei giudizi e i ripetuti tentativi, soprattutto da parte di Prima Linea, di reclutare nuovi militanti, “.. non sembra che la reattività dei lavoratori all’agitazione terroristica andasse mai al di là questi contatti sporadici, sufficienti comunque ad enfatizzare la distanza rispetto a chi aveva fatto della lotta armata la propria scelta di vita43. Secondo la ricostruzione di Marco Revelli, tra il 1975 ed il 1980 le organizzazioni armate, principalmente le Brigate Rosse, colpirono 16 dipendenti Fiat, dei quali 5 erano dirigenti, 3 funzionari, 6 capi-reparto, 2 sorveglianti e un medico di fabbrica. Le azioni terroriste riuscirono a diffondere il sospetto nella comunità operaia e a mandare in pezzi quell’affidamento reciproco che stava alla base della lotta collettiva. Come nel film “L’invasione degli ultracorpi”, degli esseri alieni si erano inseriti, dissimulandosi, nella comunità operaia ed il terrore di scoprirli nei propri compagni di lotta paralizzava i rapporti. Revelli paragona l’effetto devastante del terrorismo all’avvelenamento dei pozzi nelle comunità rurali e insiste sul suo effetto disgregativo: “delicati canali della comunicazione informale e della fiducia, costruiti pazientemente in anni di conflitto, furono d’improvviso disseccati. Il meccanismo della diffidenza e della paura ritornò ad isolare e dividere. Il mito della piena trasparenza dei rapporti interpersonali - l’idea antica che in fabbrica si conoscono gli uomini nella loro piena autenticità - fu infranto44. Se vi furono, soprattutto nella prima fase, limiti e reticenze da parte della sinistra di fabbrica e dentro l’Flm nella lotta al terrorismo, questo fu causato anche dalla linea della Fiat che puntava sì a sconfiggere il terrorismo ma, insieme, anche il conflitto sindacale. Furono principalmente i militanti della nuova sinistra a commettere l’errore di capire con chiarezza solo l’uso strumentale che del terrorismo faceva la Fiat, e anche i settori più moderati della sinistra e del movimento sindacale, senza vedere quanto quegli stessi terroristi fossero nemici della lotta di classe, democratica e di massa. La vicenda del terrorismo contribuì a spingere a destra il Pci e a rafforzare al suo interno le componenti più moderate. Il teorema secondo il quale gli operai più combattivi ed i militanti della sinistra rivoluzionaria sarebbero stati l’acqua da togliere ai “pesci” del terrorismo, divenne ben presto l’asse dell’iniziativa del Pci a Torino e alla Fiat: “…i militanti comunisti - quelli più vicini all’organizzazione del Pci - hanno sormontato le esitazioni, si sono attivati, collaborando in molte officine con i quadri dell’azienda. Non pochi cislini si muovono sulla stessa lunghezza d’onda. Di quel periodo è un questionario, nel quale si invitavano i cittadini a denunciare gli atti di violenza e gli indizi di nuclei terroristici agli organi di polizia, lanciato a Torino dal Consiglio regionale e dalle Circoscrizioni cittadine e sostenuto dal Pci. (Nell’area di sinistra e in quella moderata l’invito alla denuncia anonima da molti è giudicato un atto di regressione civile, un richiamo barbarico)45. Un clima di paura e di sospetto di diffuse in tutta la sinistra e fu la base sulla quale vennero imposte leggi speciali e liberticide.  

39 Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat, Rosemberg & Sellier, Torino 1984

40 Berta, op. cit., p. 191

41 Ibidem.

42 Girardi, op cit, p.85

43 Berta, op. cit. p. 192

44 Revelli, op. cit. p. 72

45 Lorenzo Gianotti, Gli operai Fiat hanno cento anni, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 235